Sappiamo dare il giusto valore al cibo e all’affetto?
di Anna Fata
Un piatto di verdura con l’amore
è meglio di un bue grasso con l’odio
Salomone
E’ sempre appassionante osservare i comportamenti estremi, a partire dai quali si può cercare di rinvenire una sorta di equilibrio dinamico, da ridefinire costantemente nell’arco della propria esistenza. La sfera alimentare, senza dubbio, è una delle più dinamiche che esista, specchio di una vita interiore in continua evoluzione e riassetto.
Esistono tante piccole sfumature a cui troppo spesso non si offre sufficiente attenzione e analisi, smarrendo, così, aree di significato e di valore di grande eloquenza e valore.
Prendiamo, ad esempio, i famosi avanzi, quel che resta di edibile ad un pasto e che tranquillamente potrebbe esserlo anche al successivo, oppure il giorno dopo. Gli schieramenti di fronte a questo capitolo si fanno netti, distinti, e talora anche radicali: non si getta via neppure una briciola, oppure, all’opposto, non si mangia ad un pasto altro se non quel che si è cucinato in quel momento.
Quando non esistevano gli attuali sistemi di conservazione basati sulle basse temperature, molti alimenti deperivano in fretta, da qui la necessità di consumarli, oppure di trasformarli in breve tempo, al fine di evitare sprechi. Anche perché alcuni decenni fa le condizioni economiche non ammettevano perdite, tutto era contato, soppesato, razionato. E per certi versi, la profonda e diffusa crisi economica attuale, sta facendo in parte rivivere questa condizione in buona parte dimenticata o semplicemente non vissuta dalle nuove generazioni.
Spesso e volentieri, però, in questa scelta del consumo o meno degli avanzi, non influisce lo status socioeconomico (anzi, è sorprendente notare come questo comportamento viene attuato, molto più di quanto si possa immaginare, da persone anche molto abbienti), ma delle dinamiche socio psicologiche molto profonde. C’è chi attribuisce una sacralità (intesa come consacrata ad un Dio, e come tale se cestinata o non trattata con rispetto, foriera di sciagura, punizione, rivendicazione) al cibo, e non solo al pane, come da tradizione cristiano cattolica; c’è chi semplicemente si limita a portare avanti una tradizione di famiglia che non mette più di tanto in discussione e che sancisce un legame di appartenenza; c’è chi nasconde dei tratti di masochismo, che talvolta raggiungono il limite estremo del consumare cibi avariati, talvolta anche stando male, pur di non gettarli via; c’è chi esprime la sua creatività, rielaborando e riarrangiando in modo nuovo e inconsueto una pietanza con quel che resta del pasto precedente.
Esiste, però, un tratto di fondo che spesso pare accomunare queste persone: nutrirsi delle briciole della Vita. Se, da una parte, questo denota la grande capacità di valorizzare quel che essa offre, di cogliere le piccole sfumature, di farsi riempire e sfamare da esse, dall’altra, portato all’estremo, questo atteggiamento sottende uno scarso moto vitale, una incapacità e/o impossibilità di occupare in modo netto, deciso e consistente un posto nel mondo. E allora, nutrirsi di briciole, di quel che avanza è il simbolo del banchettare con i frammenti della Vita, con quel che gli altri scartano o possiedono in sovrabbondanza. Come se per noi non ci fosse la possibilità di un pasto pieno e completo. La Vita, in questo caso, non esplode, non fiorisce, non fluisce, non riesce a scorrere in abbondanza e pienezza, in genere perché non gliene offriamo la possibilità. Un forte vissuto d’indegnità aleggia in tale situazione.
All’opposto – anche se poi così opposta come tendenza non la possiamo considerare, nella misura in cui agli estremi i contrari coincidono, specie per quanto attiene alle dinamiche profonde che si celano – c’è chi si rifiuta categoricamente d’introdurre nel proprio corpo gli avanzi. Pare quasi un affronto a se stessi. Una mancanza di rispetto, una lesione alla propria freschezza, alla propria vitalità e rinnovamento costante.
Se è vero che il cibo ci rispecchia – allo stesso modo in cui, in un moto di circolarità, anche noi assumendolo ne incorporiamo delle caratteristiche – rivedersi in un’insalata ormai parzialmente appassita o in mezzo piatto di boccolotti rappresi non appare edificante.
Dare valore, dignità, rispetto alla propria persona, e, di pari passo anche a ciò che si mangia, è sicuramente un atteggiamento sano, da incoraggiare, ma quando questo viene portato all’estremo, in termini così radicali, risulta spontaneo pensare che, in realtà, sotto sotto, campeggia una notevole svalutazione di sé, che in superficie, per poter essere mascherata, non percepita, perché troppo dolorosa, si manifesta in atteggiamenti e comportamenti opposti. Ogni radicalità, estremismo, denota una carenza di elasticità, una rigidità di fondo che sembra voler celare e proteggere qualcosa che se emergesse darebbe adito a grande sofferenza, a cui si assommerebbe il timore del giudizio, proprio e altrui.
E allora, più che mai, a tavola, come in tutte le altre situazioni esistenziali, cercare di trovare un equilibrio tra gli estremi, una situazione da ridefinire volta per volta, può essere un valido compromesso per rispettare la vitalità e la dinamicità della propria esistenza, della propria persona, e delle situazioni in cui ci si trova ad agire. Non esiste né mai esisterà una soluzione valida e buona per tutti né per ogni circostanza: talvolta una polpetta si può ripassare con il pomodoro in padella, altre volte val la pena evitare di consumarla se abbiamo mal di stomaco, se siamo a dieta, se siamo vegetariani, o semplicemente se non abbiamo appetito. A ciascuno la sua decisione.