Dove sta il confine tra bene e male?

bene male

Alla ricerca di un confine tra due estremi. Se esiste …
di Anna Fata

 

Secondo le ricerche più recenti in ambito psicologico, condotte dall’illustre psicologo americano Philip Zimbardo, esiste un fenomeno che lui ha battezzato “effetto Lucifero” in base al quale le persone buone, in determinate circostanze, diventano cattive.

Secondo il ricercatore della Stanford University vi è una linea immaginaria che separa il bene dal male che è impermeabile e che lascia fluire del materiale proprio come può accadere nel caso delle cellule umane.

Ma, concretamente, cosa consente di passare dallo stato di bontà a quello di cattiveria?

Secondo Zimbardo è la diffusione della responsabilità che si verifica all’interno dei gruppi: non essere chiamati a rispondere in prima persona di una azione, poter distribuire la responsabilità d’essa tra i membri di un gruppo rende più disinibiti e porta a compiere anche ciò che da soli non si penserebbe mai di fare. In aggiunta, il ruolo che si assume al suo interno funge da autorizzazione a infrangere determinati limiti, regole o barriere che quotidianamente vengono rispettati. Per certi versi l’individuo si deumanizza e si riduce ad una maschera, un compito, un’azione.

L’elemento più a rischio sta nel fatto che una volta entrati a fare parte di questi meccanismi, diventa assai difficile uscirne, un po’ come accade all’interno delle sette, perché si innescano degli schemi di comportamento che è arduo infrangere.

Facciamo un passo indietro e analizziamo il concetto di responsabilità e di interdipendenza. Secondo le filosofie orientali c’è un meccanismo di interdipendenza che regola il fenomeno vita. C’è una evoluzione costante che porta al cambiamento verso l’opposto. Per questo non esiste contrapposizione tra bene e male, giusto e ingiusto, ma un predominio di una polarità rispetto all’altra, in alcuni momenti di vita, che si verifica per continui passaggi.

Non c’è mai stata né mai potrà esistere una conciliazione tra gli opposti e proprio per questo nessuno dei due poli è da preferire all’altro. L’esistenza di un polo è condizione necessaria e indispensabile per l’esistenza dell’altro e per la sua manifestazione. In sintesi, si va al di là del bene e del male. Semplicemente, è.

Ma in tal caso, dunque, come viene regolato il proprio comportamento?

In base all’osservazione se questo è in grado di stimolare il divenire, il cambiamento, il naturale flusso della vita, oppure se, al contrario, si oppone ad esso. La consapevolezza, quindi, diventa la molla fondamentale per agire in modo sano e naturale.

Su un piano più prettamente psicologico potremmo affermare allo stesso modo che, nella misura in cui siamo consapevoli dei nostri lati oscuri, degli aspetti più aggressivi, turbolenti, pronti ad esplodere alla minima provocazione, siamo anche sulla buona strada per decidere se e in che misura farli emergere.

Ed ecco che così torna il concetto di responsabilità: nella misura in cui siamo consapevoli di noi stessi, di ciò che ci anima e ci motiva, nella misura in cui siamo disposti a farcene carico, senza delegarla ad altri, o attribuirla a qualcosa di esterno, siamo degli individui liberi di agire, senza farci travolgere dalle nostre passioni e dai nostri istinti.

Facile a dirsi, ma, forse, a volte, un po’ meno a farsi.

In un gruppo, infatti, spesso e volentieri ci si mette in secondo piano, si abdica ad una parte di sé che, però, può essere (facilmente) recuperata, se veramente lo si desidera. Come? Coltivando il proprio senso di identità e di individualità. Questa consente di partecipare ad un gruppo, di entrarne e di uscirne senza perdere le proprie peculiarità di singolo, senza abdicare alle proprie responsabilità e impegni che vengono presi prima di tutto nei propri confronti ancor prima che nei confronti degli altri membri. D’altra parte, per citare ancora una volta il concetto di interdipendenza, se il singolo si comporta in modo attento, rispettoso e responsabile, anche chi sta intorno sarà incoraggiato a fare altrettanto, perché è consapevole che gli effetti delle sue azioni ricadono sia su di lui, sia su chi sta intorno, sia sull’insieme di coloro che lo circondano e di cui è parte, cioè il gruppo.

Ed ecco, quindi, che sebbene la questione etica risenta ancora di una quota di soggettività e sia contestualizzata in un luogo e in un tempo ben definiti, siamo riusciti a superare un dualismo che non ha ragion d’essere, nella misura in cui è costitutiva dell’essenza di ciascuno di noi e rappresenta la condizione indispensabile per l’esistenza. Andare al di là di un dualismo consente un approccio più sereno alla vita nelle sue molteplici manifestazioni, portando ad accettare con pacatezza le sue più svariate sfumature. E, ancor di più, risveglia a gran voce il senso di responsabilità di ciascuno e il senso di interconnessione che lo vede legato ad un contesto più ampio di cui è parte, in cui offre il suo contributo e da cui viene influenzato.

Psicologicamente questo coincide con un livello maggiore di maturità che potremmo paragonare alla saggezza della fase adulta della vita in cui il pensiero non si limita a se stessi, ma va oltre per connettersi ad un sistema più ampio di cui ciascuno, direttamente e/o indirettamente, è parte e a cui è chiamato a rispondere in modo pieno e responsabile.

 

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