La vita di coppia è cambiata? Come si sono evoluti i rapporti affettivi? Meglio ieri o oggi?
di Anna Fata
Osservo coppie di coniugi passeggiare sul lungomare, un pomeriggio assolato di primavera inoltrata. Molti si fermano con l’auto, scendono, indossano un giacchettino e si soffermano meno di cinque minuti in contemplazione del mare, poi ripartono.
Sguardi assorti, pensierosi, occhi abbagliati dal sole ancor intenso, nonostante il processo di declino avanzato della giornata. Come l’età delle persone più vicine ai sessanta-settanta, che ad una prima giovinezza, con alle spalle trenta, quarant’anni di vita, abitudini, tenerezze, noie, recriminazioni, consuetudini condivise.
Proprio vero che dopo lunghe convivenze, anche fisicamente le persone cominciano ad assomigliarsi, nei ritmi, nelle abitudini, nella conformazione corporea. Fisici vissuti, irrobustiti o indeboliti dalle fatiche, dalle malattie, dalle gioie, dai dolori, dal caldo, dal freddo. Ventri sformati, fianchi appesantiti, rughe sotto gl’occhi, ai lati delle labbra, pelle che cade dall’interno delle braccia.
Ognuno nel suo mondo, chi più avanti, chi più indietro, chi arranca a fatica, chi si lascia trascinare. Eppure le convivenze si mantengono, attraversano le avversità, a volte per comodo, per pigrizia, per paura, abitudine, altre volte perché in fondo, in fondo, ci si crede.
Altre generazioni, altri tempi, altri modelli sociali.
Difficile dire se era meglio o peggio allora, il loro o il nostro modo d’affrontare la vita di coppia.
Oggi il disimpegno, l’instabilità, l’incertezza, il caos.
Un’apparente libertà di scelta che, in realtà, pare essere imprigionante. Quando si decide di assumersi una responsabilità, al di là del bene e del male, della buona e della cattiva sorte, si prova un senso di leggerezza, di libertà, un contenitore sconfinato entro cui muoversi, agire, operare. Strano, ma vero, paradossale solo all’apparenza.
Siamo nell’epoca del maggior numero di separazioni e divorzi rispetto ai matrimoni, splendide coreografie spesso celebrate più per l’apparenza, l’epilogo, che non come manifestazione consapevole di un nuovo inizio.
Forse la crisi economica, la precarietà di lavoro, la mancanza di un senso per la vita sono più conseguenze che non cause di un disimpegno dilagante, di un vuoto di senso che si cerca di riempire fuori, con oggetti, luoghi, persone, conducendo inevitabilmente a frustrazioni, rabbie, recriminazioni, quando nell’altro non si trova ciò che si cerca.
Chissà, forse dovremmo imparare ad osservare di più, ad imparare dal passato, a integrarlo, a non rifiutarlo in toto. Perché sono solo la comprensione, l’accettazione, la pacificazione che consentono di trascendere quel che è stato e che continua a vivere, di fondo, dentro di noi.
Per approfondire l’argomento ti potrebbe interessare il libro: “Amore Zen” – Edizioni Crisalide