Intervista a Daniela Di Ciaccio
di Anna Fata
Da che mondo è mondo, l’uomo fa di tutto per rifuggire dal dolore e dalla sofferenza e ricercare la felicità. Gradualmente, con lo scorrere degli anni e con l’accrescersi dell’esperienza, magari arriva un giorno in cui ci si rende conto che il dolore è pressoché inevitabile e che probabilmente quello più grande sta propria nella non accettazione, nella ribellione, nella fuga da esso.
Inoltre, la felicità stessa, per la natura transitoria di ogni manifestazione di vita, in ampia parte anche poco definibile e afferrabile, sembra essere una chimera che più si cerca di rincorrere e magari trattenere, più diventa sfuggente, misteriosa, inafferrabile.
Se è vero che numerose ricerche scientifiche e tecnologiche ci hanno consentito e, auspicabilmente, ci permetteranno sempre più di ridurre o magari anche eliminare buona parte del dolore fisico, relativamente alla sofferenza emotiva e mentale, probabilmente, non si riuscirà mai a superarla definitivamente.
A questo proposito, infatti, al di là degli strumenti, delle tecniche, delle strategie, dei professionisti che ci possono affiancare, un ruolo imprescindibile continua ad averlo e sempre lo avrà ciascuno di noi in prima persona. Nessuno si può sostituire a noi nella vita e nel vivere.
Anche quando ci mettiamo tutto il nostro impegno e la nostra buona volontà, però, la nostra esistenza, le sensazioni, i pensieri, le emozioni, i comportamenti non sempre sembrano portarci la felicità e tutti i conseguimenti mentali, emozionali e fisici che auspichiamo. A volte qualcosa di inconscio si oppone e finisce col sabotare, più o meno consapevole, tutti i nostri sforzi.
Scienza della Felicità è l’espressione che racchiude a livello accademico ricerche scientifiche all’avanguardia portate avanti da discipline diverse – come la Psicologia Positiva, la Neuroscienza, la Biologia Molecolare, la Fisica Quantistica, l’Economia – che hanno cercato di indagare gli aspetti legati al benessere, alla realizzazione personale e professionale, alla soddisfazione nella vita, all’armonia nelle relazioni, ai pensieri ed emozioni positive ivi compresa la felicità.
Tutti questi studi stanno convergendo sulla dimostrazione che la Felicità è una competenza e dunque si può allenare.
Perché alcune persone sono più felici di altre? Felici si nasce o si diventa? Si è felici perché si ha successo, o si ha successo perché si è felici? Quanto contano le buone relazioni nella nostra salute emotiva?
Di questo e molto altro abbiamo parlato con Daniela Di Ciaccio, Ricercatrice, divulgatrice di Scienza della Felicità, Co-funder di 2BHappy Agency, Autrice del libro “La scienza delle Organizzazioni Positive”.
D: Per chi non la conoscesse, che cosa è la Scienza della Felicità e come si differenzia dal cosiddetto “pensiero positivo” tanto in voga intorno agli anni ‘80?
R: La Scienza della Felicità è il termine con cui si stanno aggregando le ricerche, le evidenze e i nuovi paradigmi che nell’ambito di diverse discipline e scienze consolidate (come la Psicologia, la Neuroscienza, la Biologia Molecolare, l’Economia, la Fisica Quantistica, la Medicina integrata, la Sociologia) stanno dimostrando che la felicità non è solo un’emozione ma una competenza e, come tale, possiamo coltivarla, a beneficio dei singoli e dell’intero sistema sociale.
D: Secondo la Scienza della Felicità, come si possono definire il benessere e la felicità?
R: La felicità è appunto una competenza e afferisce alla capacità di intercettare, sviluppare e utilizzare le nostre risorse interiori (intenzionalità, valori, talenti, resilienza..) per fiorire come esseri umani e società.
D: Uno dei dubbi amletici più grandi intorno a cui la scienza si è arrovellata negli anni è fino a che punto un tratto di personalità ha basi prevalentemente genetiche oppure ambientali. In merito alla felicità cosa si può dire: felici si nasce o si diventa?
R: Sonja Lyubomirski, ricercatrice e professoressa all’Università della California, ha condotto una splendida ricerca che ha dimostrato che la nostra felicità dipende effettivamente per il 50% dai geni. Solo il 10% è determinato dalle situazioni di vita (dove nasciamo, se vinciamo la lotteria etc..) e un 40% dai nostri comportamenti intenzionali. Il 40% è una percentuale molto alta, abbiamo quindi un grande potere nelle nostre mani di influenzare la nostra felicità.
D: Se concretamente possiamo aumentare i nostri livelli basali di felicità, fino a che punto tali cambiamenti sono stabili nel tempo e, nel caso, cosa fare per poterli consolidare?
R: Sono stabili nel tempo se la pratica che scegliamo di attuare per aumentare la nostra felicità è quotidiana, costante, intenzionale. Dobbiamo ri-cablare il nostro cervello alla positività andando a neutralizzare prima di tutto quello che in psicologia si chiama negatività bias, ossia pregiudizio innato alla negatività, un’eredità dell’evoluzione che ci ha resi particolarmente sensibili a pericoli e minacce e vedere dunque il negativo, per motivi legati alla sopravvivenza.
Se per 600 milioni di anni abbiamo visto tutto nero, per indossare lenti a colori dobbiamo allenarci tanto. Il cervello non è un muscolo ma funziona allo stesso modo e la felicità è un’abitudine da costruire: occorre quindi tanto allenamento!
D: Nello specifico, può fornirci qualche semplice esercizio concreto che possiamo applicare nella nostra piccola quotidianità di vita e di lavoro?
R: 2 minuti di respirazione consapevole ogni 2 ore: ci aiutano a riportare la mente nel qui e ora, ad ossigenare il nostro corpo riportando lucidità e calma in noi che ci consentono di vedere le cose per come sono e quindi essere più efficaci nell’individuare soluzioni o alternative a problemi.
Ridere, perché genera endorfine, ormoni del benessere che ci fanno stare bene e coltivare sane relazioni sociali: ringraziando chi ci preparare il caffè o ci presta supporto, donando gentilezza anche se siamo in coda al supermercato, dedicando tempo alle persone che amiamo abbracciandole ed esprimendo apprezzamenti.
Tutto questo produce quella chimica della positività, ormoni come l’ossitocina, la serotonina, la dopamina che aprono i centri dell’apprendimento e della creatività ma aiutano anche il sistema immunitario e ci fanno vivere in salute e più a lungo.
D: Spesso il senso comune sostiene che chi si limita alla cura di sé, del proprio benessere e felicità, in ultima analisi è una persona egoista. In realtà, molte ricerche hanno messo in luce che le persone che sono serene e felici sono più altruiste e più disposte ad aiutare il prossimo e l’intera collettività. Nella sua esperienza cosa ci può raccontare al proposito: dove sta, se c’è, il confine tra cura di sé e cura del prossimo?
R: Siamo cablati per la socialità e prenderci cura degli altri è un imperativo biologico perché non è la specie più forte che si è evoluta ma quella che ha saputo cooperare meglio. Se ci siamo divisi, separati, se non riusciamo più a vedere negli altri un altro noi è perché storicamente hanno preso piede modelli culturali, mappe mentali basate sull’io e l’ego che sono diventate dominanti.
In verità, la nostra natura è altruista e generosa, le ricerche lo hanno dimostrato che funzioniamo meglio insieme agli altri e che la qualità delle relazioni sociali incide sulla salute e la longevità.
Il confine tra cura di sé e cura del prossimo lo fa il livello di consapevolezza personale. Se non ci prendiamo cura di noi stessi, se non siamo felici per primi noi, se non ci amiamo autenticamente non possiamo dare nulla agli altri e gli altri diventano solo un mezzo per soddisfare i nostri bisogni. Più siamo felici, appagati e consapevoli, più ci relazioniamo in maniera sana agli altri.
D: Veniamo alle applicazioni concrete e contestualizzate nei vari ambiti di vita: come si può situare ed esplicare un intervento tramite la Scienza della Felicità ad esempio, in famiglia, a scuola, in ufficio?
R: Non esistono ricette valide per tutte le famiglie, per tutte le scuole o per tutte le aziende, la vita e i sistemi sociali sono strutture complesse determinate dall’interazione di fattori psicologici, sociali, tecnologici, etc.
Quello che sappiamo oggi è che ci sono dei principi sui quali costruire, disegnare, sperimentare tecniche e strumenti d’intervento e questi principi sono solidi perché afferiscono a come funzioniamo, da un punto di vista biologico.
Sappiamo ad esempio che funzioniamo meglio con una chimica positiva (emozioni e pensieri piacevoli che generano ormoni come ossitocina, endorfine, dopamina, serotonina) perché siamo più creativi, più empatici, ci si aprono i centri dell’apprendimento.
Come si traduce nella pratica questo principio?
Nelle scuole, ad esempio, se so che il divertimento (emozioni piacevoli, endorfine) accelera l’apprendimento, dovremmo iniziare a domandarci, come faccio a rendere i programmi scolastici, le lezioni divertenti?
In famiglia, invece, se so che le parole positive e gli apprezzamenti hanno un effetto sulla nostra energia e salute, come comunico con il mio partner e i miei figli? Tendo a sottolineare ciò che non va e non funziona? Quante volte in una giornata ringrazio e dico ti voglio bene alle persone che amo?
Ogni esperienza che facciamo, ogni pensiero e ogni emozione crea un legame a livello neurale, ogni giorno attraverso le nostre parole, i nostri comportamenti letteralmente cabliamo il nostro cervello.
E sappiamo che attraverso chimica positiva fioriamo, con la chimica negativa (dello stress, della pressione, della tensione e del cortisolo), ci ammaliamo, siamo meno efficaci, tendiamo ad isolarci di più.
Al lavoro ad esempio, occuparsi di felicità è diventato urgente, oltre che necessario.
L’87% dei lavoratori del mondo è demotivato e questo genera miliardi persi di produttività. Le ricerche hanno dimostrato al contrario che i lavoratori felici sono più produttivi, creativi e si ammalano di meno.
Portare la felicità al lavoro non significa andare in giro per gli uffici a dare pacche sulle spalle o dispensare sorrisi di circostanza. Ha più a che fare con una revisione totale del modo in cui abbiamo organizzato la vita lavorativa, creare cioè le condizioni affinché i bisogni dei lavoratori di sicurezza, riconoscimento, connessione siano soddisfatti e insieme a questo garantire libertà e autonomia nello svolgimento delle attività ma soprattutto senso e significato.
Le ricerche hanno dimostrato che ciò che rende le persone felici al lavoro sono soprattutto la qualità delle relazioni, in particolare con i capi, e la possibilità di generare risultati che hanno un senso per se stessi e gli altri.
A questo proposito è anche importante notare come finalmente che le cose stiano cambiando in Italia. Quando abbiamo iniziato a parlare di felicità al lavoro 5 anni fa, molte aziende ci sorridevano sarcastiche pensando fosse un ossimoro accostare le due parole.
Oggi siamo in procinto di lanciare la prima certificazione italiana in Chief Happiness Officer, a cui parteciperanno 50 manager di aziende di tutte le dimensioni e settori che vogliono abbracciare questo nuovo paradigma culturale per la costruzione di un futuro eco-sistemico e con il principio della felicità per tutti come pilastro.
D: In senso ancora più ampio: in un’epoca in cui sembrano prevalere i sentimenti, i pensieri, le emozioni e le azioni negative, ispirate alla cattiveria, al cinismo, all’egoismo, alla violenza verbale e materiale a livello sociale, culturale, politico quale contributo potrebbe offrire la Scienza della Felicità e i buoni sentimenti a livello comunitario?
R: Uno dei pilastri della Scienza della Felicità è appunto il capitale sociale, la capacità cioè che abbiamo di costruire relazioni sane e di fiducia. E’ la chiave per la resilienza delle comunità, per affrontare le sfide della complessità. Quanto più siamo in grado di cooperare tante più chance avremo come specie di evolverci in modo vantaggioso.
D: Arrivati a questo punto, se una persona volesse intraprendere un percorso per diventare più felice, realizzarsi, vivere e lavorare meglio a chi si potrebbe rivolgere?
R: A tutti quei professionisti delle relazioni d’aiuto, del benessere e dello sviluppo personale come coach, psicologi, consulenti, formatori che hanno maturato una professionalità e delle competenze su questi argomenti ma soprattutto siano persone coerenti, in grado di viverle, manifestarle spontaneamente.
Noi per rispondere a questo bisogno emergente stiamo formando da 3 anni una rete di Geni Positivi, esperti appunto di Scienza della Felicità, che con competenze, metodo e valori specifici, portano questi argomenti in tutte le famiglie, scuole, ospedali, aziende del territorio italiano.
D: E se invece una persona desiderasse a sua volta diventare un professionista nell’ambito della Scienza della Felicità quale iter formativo consiglierebbe?
R: Il percorso Genio Positivo® che proponiamo in 2BHappy è nato proprio per rispondere a questo bisogno emergente di professionalità specifiche ed è diretto a chi ha già una base di competenza e conoscenze nell’ambito della formazione, del coaching, del benessere e dello sviluppo personale. Senza questa base, suggerisco di partire da qui.