Come ritrovare forza e speranza dopo un evento traumatico
di Anna Fata
Viviamo in circostanze storiche, culturali, geografiche di grandi cambiamenti, evoluzioni, a volte anche fortemente traumatici.
Guerre, alluvioni, terremoti, povertà, lutti, carestie, tutti temi scomodi che vediamo spesso solo alla televisione, che magari ci toccano solo di striscio, magari perché qualche conoscente lontano ne è coinvolto, o forse neppure quello. Tutto questo mentre noi ce ne stiamo comodi sul nostro divano, a fare zapping col telecomando alla ricerca affannosa di qualcosa che distragga e sollazzi la mente.
Ci chiudiamo, ci estraniamo, al massimo ci emozioniamo un istante, doniamo qualche spicciolo con un sms solidale, per poi tornare alla nostra indifferenza quotidiana.
Crediamo che le cose accadano solo agli altri, mentre noi ci ostiniamo a girare attorno al nostro ombelico, alle nostre esigenze e ci lamentiamo come bimbetti in fasce se piove o se c’è il sole, se la pasta è scotta, o le scarpe ci fanno male. Ecco i nostri problemi quotidiani.
Fin da quando ero piccola pregavo il buon Dio dei Cattolici chiedendo tante belle e buone cose, promettendo preghierine e fioretti in cambi, assicurando che sarei stata buona e avrei fatto la brava, la bimba ubbidiente che sa stare al suo posto, aiuta a casa, fa i compiti con diligenza e non fa arrabbiare la mamma.
Ovviamente non poteva funzionare: Dio non è una banca dove si va a chiedere qualcosa in cambio di un’altra, né per sé, né per il proprio prossimo.
Papa Francesco chiede sempre di pregare per lui, sapendo che per sé non si può chiedere alcunché. Ma “funziona”?
Dipende.
Ho imparato sulla mia pelle, negli anni, vivendo, che esiste una sorta di progetto di vita di fondo rispetto al quale dobbiamo piegarci e adattarci. Sì, abbiamo il libero arbitrio, su alcune cose abbiamo potere di scelta, ma, che ci piaccia o meno, sono veramente poche rispetto alle quali siamo veramente liberi. Siamo all’interno di un progetto più vasto e, in un modo o nell’altro, quello è lo spettro entro il quale siamo chiamati a muoverci.
A volte è faticoso.
Tanto.
Ma si cresce.
Si trovano virtù e forze insperate dentro di noi che altrimenti, forse, non sarebbe mai stato possibile.
Nella mia ricerca interiore e credo anche in quella di molti di noi, più si va avanti, più, paradossalmente, si perdono le certezze, i punti fermi. Sorgono infiniti dubbi, al punto che, talvolta, si finisce col non porsi più domande.
Certo che di fronte a traumi collettivi tanto vasti, oltre al versante strettamente personale, individuale, c’è anche quello collettivo, e allora, soprattutto in quei casi sorge il dubbio, sconfortato, sconsolato, a volte magari anche rabbioso: ma esiste un Dio? E se esiste, come fa ad essere un Dio buono se consente tutto questo?
Possiamo rispondere facendo leva sulle risposte stereotipate che le Istituzioni religiose adducono dall’alto del loro pulpito, ma temo che servirebbero a poco, soprattutto a chi vive in prima persona queste dolorose esperienze. Credo, invece, che le risposte si debbano e si possano trovare in se stessi, passata l’ondata emotiva e di fatica anche fisica che spesso queste esperienze comportano.
- Cosa mi sta insegnando questa esperienza?
- Come sono cambiate le mie priorità di vita oggi?
- Cosa conta veramente per me ora?
- Quali talenti che non conoscevo sono emersi in me grazie a questa situazione?
- Cosa ho imparato ad apprezzare della vita?
- Come sono cambiate le mie relazioni?
- Come posso essere utile al mio prossimo?
Dopo eventi fortemente traumatici, del resto, come ci ricorda Don Luigi Maria Epicoco, sopravvissuto al terremoto de L’Aquila del 2009:
“O si diventa persone migliori, o si diventa persone disperate,
che pensano che la risposta sia il vuoto”
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