Come creare una cultura condivisa in azienda: il valore del linguaggio

cultura condivisa

Perché il linguaggio comune non sempre favorisce l’appartenenza all’azienda

di Anna Fata

Oggi più che mai siamo immersi in un processo di internazionalizzazione. L’apertura al mondo, da un lato consente nuove scoperte, contaminazioni, costruzioni, collaborazione, dall’altro, però può comportare il rischio di perdere le identità locali.

Per questo motivo, alcune aziende si difendono rinchiudendosi in se stessi, per cercare a tutti i costi di preservare la propria identità territoriale, culturale, produttiva, sociale, culturale, mentre altre sconfinano nell’estremo opposto.

Nel mezzo si situano gli interessanti casi di “glocalizzazione” in cui si cerca di mediare creativamente tra istanze globali e locali.

Il valore del linguaggio

Una delle manifestazioni più comuni del processo di internazionalizzazione, ad esempio, consiste nell’uso della lingua inglese come veicolo comunicativo super partes in diverse aziende, a dispetto della provenienza geografica dei dipendenti e della sua stessa dislocazione nel mondo.

Se è vero che occorre trovare un terreno comune per l’incontro, il confronto, lo scambio, la collaborazione tra soggetti, modi, tempi, luoghi anche molto diversi tra loro, è altrettanto vero che talvolta i punti di incontro e accordo possono rappresentare un appiattimento troppo pronunciato delle differenze che fanno perdere la ricchezza  e le potenzialità insite in esse.

Nello specifico, per proseguire l’esempio, la lingua inglese può comportare per le aziende che la adottano i seguenti benefici:

  • facilita e promuove la comunicazione interna
  • favorisce le comunicazioni esterne con tutti gli stakeholder
  • migliora l’efficienza produttiva
  • contribuisce a costruire un senso di appartenenza alla azienda
  • permette di monitorare gli scambi comunicativi
  • attrae dipendenti provenienti da tutto il mondo.

Sapere e sentire che qualcuno condivide il proprio linguaggio crea una condizione emotiva e concreta tale per cui diviene più facile sentirsi ascoltati, accolti, capiti, non solo in modo professionale, ma anche e soprattutto umano.

Un linguaggio comune e condiviso stimola la condivisione, la creatività, lo scambio, la collaborazione, la cooperazione. Lo stesso linguaggio è frutto di una costante e continua costruzione e ricostruzione di un codice e ancora più di un significato condiviso a cui tutti sentono di poter offrire il proprio contributo.

I limiti di un’unica lingua aziendale

Optare per l’adozione di un’unica lingua aziendale, a dispetto delle diverse culture, estrazioni e idiomi dei singoli impiegati e del Paese ospitante può comportare al tempo stesso anche dei limiti. Quello principale consiste nella perdita del senso di identità e di status di coloro per la quale la lingua di adozione non coincide con quella dello stato natale.

Secondo Rebecca Piekkari, docente presso la  Aalto University School of Business esistono anche altri svantaggi nell’adottare un’unica lingua aziendale, nello specifico:

  • l’esclusione, che fa sì che se la padronanza della lingua non è eccellente si viene automaticamente esclusi dal poter raggiungere i vertici aziendali
  • il silenziamento, che si esplica nella riduzione complessiva dell’intera comunicazione aziendale interna
  • la stagnazione, che limita le strategie di lavoro e impedisce di proporsi e affermarsi a molti potenziali candidati
  • la selezione, che crea un inevitabile filtro all’ingresso e condivisione delle informazioni.

La conoscenza fluente della lingua adottata dall’azienda, quindi, può rappresentare una barriera all’ingresso in azienda molto forte, soprattutto per chi non è madrelingua. Non sempre gli sforzi per apprenderla possono sortire gli effetti ottimali sperati, per cui vi possono essere persone professionalmente molto preparate e ideali per i posti vacanti in azienda, ma culturalmente non all’altezza di adeguarsi al linguaggio condiviso.

L’alternativa che la ricercatrice propone in questi casi, per superare questo che può essere un forte limite non solo per il candidato, ma anche per l’azienda stessa, che potrebbe perdere dei talenti importanti capaci di dare grande valore aggiunto alla stessa, potrebbe essere quella di adottare un duplice linguaggio, non solo quello super partes, come potrebbe essere l’inglese, ma anche quello del Paese ospitante l’azienda.

Questa duplicità di idioma consentirebbe una migliore integrazione dell’azienda stessa con il territorio e gli attori locali, con possibili fruttuosi scambi, contaminazioni, collaborazioni, cooperazioni, che potrebbero essere di grande arricchimento reciproco. Ciò aprirebbe le porte alla costituzione di una vera e propria comunità globale.

Il significato del linguaggio

Un idioma non è solo un insieme di segni e lettere, ma anche e soprattutto un patrimonio di informazione, conoscenza, cultura compresa, costruita, condivisa collettivamente e ridefinita di continuo.

Ciascuno può offrire il suo contributo, pur all’interno di una serie di norme e regole che in ampia parte restano stabili nel tempo, ma in piccola parte si adeguano anche allo scorrere del tempo, alle circostanze e al mutamento delle esigenze comunicative.

Il linguaggio per svolgere la sua naturale funzione delle essere compreso. Per fare questo occorre un accordo condiviso sui significati. Le parole, infatti, possono assumere anche molteplici sfumature di senso, a volte anche simbolico, che per una corretta comunicazione devono essere colte e interpretate di volta in volta.

Talvolta questo si può effettuare non solo tramite norme e regole codificate, ma anche per mezzo di buon senso, intuito, esperienza che solo la convivenza e la condivisione quotidiana possono apportare.

Un idioma non è mai qualcosa di neutro, ma risente inevitabilmente delle consuetudini sociali, culturali, educative, della persona che ne fa uso. Ad esempio, l’utilizzo della lingua inglese di per se stesso non è automaticamente in grado di mettere un orientale e un occidentale sullo stesso piano comunicativo, perché il significato attribuito a determinate parole da parte dell’uno e dell’altro può essere anche molto diverso. Per questo motivo una lingua comune non è sufficiente per mettere due persone nelle condizioni di capirsi e, auspicabilmente, lavorare insieme per obiettivi comuni e condivisi.

Il valore dell’Intelligenza Culturale

La reale priorità per un’azienda, quindi, dovrebbe essere la creazione di una Intelligenza Culturale capace di andare di pari passo con l’apprendimento di un linguaggio capace di unire una azienda a livello globale e di favorire la creazione di una comunità di business internazionale.

Nel business, prima e al di là di tutto, sono basilari, infatti, le relazioni solide e durature nel tempo. Per la loro costruzione comprendere e rispettare il retroterra sociale e culturale di ogni persona è imprescindibile. Per chiudere buoni affari nel mondo occorre prima di tutto conoscerlo bene e adeguarsi, per quanto possibile, alle sue consuetudini.

Secondo  Piekkari l’Intelligenza Culturale si può apprendere con la pratica, la ripetizione, la riflessione e la correzione tempestiva di eventuali errori. Quando si apprendono nuove conoscenze le connessioni neurocerebrali si riorganizzano e questo richiede tempo e dedizione.

Imparare una nuova lingua, nuove abilità e competenze sociali e culturali è un processo connesso alla Intelligenza Culturale che non finisce mai di espandersi. Un buon leader oggi non può più fare a meno di valutare anche questa inclinazione all’atto di selezionare un candidato per la sua azienda, pena la mancata integrazione con il resto dei dipendenti e i limiti di esercizio stesso della propria e altrui professionalità.

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