a cura di Redazione ArmoniaBenessere
Le diete chetogeniche, che si caratterizzano per il ridotto contenuto di carboidrati, sono ritenute in grado di arrestare le convulsioni dall’inizio: ciò fornisce una dimostrazione evidente dell’impatto di quel che mangiamo sulla chimica delle nostre funzioni cerebrali. Questi regimi alimentari esistono più o meno da un secolo e possono essere chiamati in causa per il trattamento dell’epilessia e di altre condizioni neurologiche, tra cui il mal di testa cronico, la sclerosi multipla, la lesione cerebrale traumatica, la Sla e il Parkinson. Risultati interessanti sono stati evidenziati anche nel caso del diabete di tipo 2 e dell’obesità.
Le caratteristiche delle diete chetogeniche
Non esiste una definizione universale delle diete chetogeniche, ma questo non vuol dire che non possano essere individuati dei tratti comuni ai regimi alimentari che rientrano in questa categoria: in particolare, il contenuto relativamente elevato di grassi e al tempo stesso il basso contenuto di carboidrati, fino a un massimo di 20 grammi al giorno. Lo scopo di una dieta chetogenica è quello di diminuire il livello di insulina e di zucchero nel sangue. Nel momento in cui tali livelli sono bassi, infatti, l’organismo utilizza come fonte di energia primaria non lo zucchero ma il grasso.
Il ruolo della dieta chetogenica
Quasi tutte le diete chetogeniche, inoltre, prevedono un’assunzione limitata di proteine: eventuali eccessi di questi nutrienti, infatti, finiscono per accrescere il livello di insulina e di zucchero nel flusso ematico. Il grasso della dieta e quello del corpo vengono scomposti in chetoni, i quali sono trasportati dal sangue per poi essere bruciati dalle cellule, incluse le cellule cerebrali. Nel giro di pochi giorni aumenta il livello di chetoni non solo nel sangue, ma anche nel respiro e nelle urine. Tuttavia, c’è bisogno di un po’ più di tempo per far sì che il corpo impari a bruciare i grassi in maniera efficiente, così da produrre energia e ricavare i benefici auspicati.
Che cosa vuol dire che una persona è in chetosi
Non si è ancora capito in che modo le diete chetogeniche contribuiscano a tenere le convulsioni sotto controllo e come riescano a migliorare i sintomi psichiatrici. Ciò che si sa è che nel momento in cui un soggetto è in chetosi i livelli di chetoni nel flusso ematico arrivano fino a 0.5 mM, se non addirittura oltre, mentre al mattino a digiuno i livelli di glicemia scendono tra i 60 e gli 85 mg per dl. Sono questi i parametri che rendono differenti le classiche diete a ridotto contenuto di carboidrati dai regimi alimentari chetogenici: le prime, infatti, possono essere caratterizzate da una quantità di proteine eccessiva.
Il disturbo bipolare e le diete chetogeniche
Nel 2002 è stato condotto un caso studio della durata di un mese su un soggetto colpito da disturbo bipolare non specificato. Dopo due settimane a base di dieta chetogenica e due settimane di assunzione di olio MCT non sono stati riscontrati miglioramenti, ma il test delle urine ha evidenziato che non si è mai arrivati alla chetosi. Dieci anni più tardi, un caso di studio condotto su due soggetti con disturbo bipolare II a cui è stata fatta seguire una dieta chetogenica ha permesso di rilevare che la dieta, dal punto di vista della gestione dei sintomi, era superiore al Lamictal per stabilizzare l’umore e come anticonvulsivante. I due soggetti hanno seguito la dieta per due e tre anni, ed è stata documentata la chetosi.
Il disturbo dello spettro autistico e le diete chetogeniche
Diversi studi sono stati compiuti anche sul rapporto tra il disturbo dello spettro autistico e le diete chetogeniche. Una ricerca effettuata su topi per 70 giorni ha messo in evidenza un miglioramento del comportamento innescato dalla dieta chetogenica. Nel 2003 su 30 bambini colpiti da disturbo dello spettro autistico è stato compiuto uno studio della durata di sei mesi finalizzato a verificare le conseguenze di una dieta chetogenica ciclica: il regime alimentare veniva adottato per quattro settimane, poi c’erano due settimane di riposo e quindi si ricominciava. Lo studio è stato completato da diciotto bambini, due dei quali hanno fatto registrare un miglioramento significativo; in otto casi, invece, c’è stato un miglioramento moderato.