Perché è così difficile chiedere?

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Psicologia dei nostri bisogni più nascosti
di Anna Fata

Perché è così difficile chiedere?

Fin da piccoli veniamo spronati all’autonomia, all’indipendenza, che talora si spinge all’estremo della competizione, della logica del “mors tua, vita mea”. La vita, il lavoro, si configurano come lotte, guerre all’ultimo sangue dove non sempre né necessariamente vince il “migliore”, chi ha talenti più affinati, ma chi li sa vendere meglio, con tattiche lecite, e a volte meno lecite, chi danneggia il vicino, chi ha un approccio più distruttivo che costruttivo, della vita, del mondo, delle relazioni, dell’attività professionale.

 

Come siamo arrivati, oggi, a tanta acredine e conflittualità, aperta o latente?

Sicuramente il contesto di crisi economica, finanziaria, che affonda le sue radici in una più profonda crisi culturale, sociale, valoriale, politica, religiosa, filosofica, spirituale, non ha aiutato. Quella che avrebbe potuto essere una situazione, pur nella sua complessità estrema, che ci avrebbe consentito di fare piazza pulita di tanti schemi, credenze, cliché ormai superati e di creare un umanesimo rinnovato totalmente, si è rivelata per molti di noi un’occasione di ripiegamento su se stessi, di solitudine, di inimicizia, di silenzio, che talvolta culmina nell’attacco, nella polemica, nella distruzione.

In questa situazione di grande confusione, di perdita di riferimenti, di smarrimento di sé, della propria identità, prima ancora del posto di lavoro, e a cascata magari anche delle relazioni affettive, amicali, della famiglia, ci si è trovati costretti a fare i conti con i propri bisogni.

 

Quali bisogni?

Innanzi tutto i bisogni primari, quelli che sanciscono la nostra sopravvivenza quotidiana, a cui, però, sono strettamente connessi tutti gli altri, specie quelli di sicurezza, appartenenza, affetto, di conforto, accoglienza, amore, stima, espressione personale e professionale, autorealizzazione.

Vedere in tutta la loro imminente necessità i nostri bisogni ci lascia smarriti, spaventati, ingenera in noi un senso di vera e propria lotta per la sopravvivenza. Richiama al tempo stesso l’epoca in cui siamo stati totalmente dipendenti per il soddisfacimento di tali bisogni da nostra madre. Quanto più abbiamo imparato ad affidarci serenamente a noi, tanto più confrontarci con i nostri bisogni non ci crea disagio. Se, invece, l’attaccamento è stato ansioso, ambivalente, evitante, discontinuo, non rispondente ai nostri bisogni, anche il nostro approccio successivo alla vita sarà altrettanto discontinuo, insicuro, carico di ansia, di paura. Si ha come la sensazione, spesso inconscia, che la nostra vita è a rischio.

 

E, allora, perché chiedere può essere così difficile?

Perché va a smuovere, per lo più inconsciamente dei meccanismi interiori che non vogliamo vedere, sentire, che ci mettono a disagio, ci spaventano, ci imbarazzano, ci portano indietro nel tempo. Dentro di noi, nel profondo, c’è sempre un bambino piccolo che, come ai tempi, ha bisogno di cure, attenzioni, conforto, oltre che il necessario per la sussistenza materiale.

Chiedere all’altro ci espone alla minaccia del rifiuto, al “no” come risposta, o, al limite, all’assenza di una risposta, all’indifferenza, che per molti di noi è ancora peggiore, perché non fa sentire riconosciuti, mette in dubbio la nostra esistenza e con essa la sussistenza.

Chiedere all’altro, però, all’opposto espone anche al rischio di un “”, che a sua volta comporta l’accettazione di qualcosa che, magari, non si è e, forse, non si sarà in grado di restituire. Implica l’instaurazione di un legame, che per molti viene percepito come vincolo, come dipendenza, esattamente come quando da piccoli eravamo nelle mani di nostra madre. Da adulti fare i conti con la mancanza d’indipendenza, materiale, morale, affettiva che sia, temporanea o prolungata, per alcuni viene sentito come minaccia, paradossalmente, proprio alla propria sopravvivenza. E’ come essere tornati improvvisamente indietro nel tempo e avere perso tutto ciò che, soprattutto su un piano interiore, si ha acquisito.

Sapere accettare dal prossimo in un momento di bisogno implica umiltà, il mettere da parte il proprio orgoglio, la propria presunta autosufficienza, un’autonomia che, forse, niente e nessuno ci potrà mai dare in senso assoluto.

Esiste, in realtà, una profonda, sottile interdipendenza tra tutti noi, vicini, lontani, conosciuti e sconosciuti: quanto più sappiamo riconoscerla, accettarla, alimentarla, e nutrirla, con rispetto e gratitudine, in un rapporto fluido e continuo di dare-avere, senza stare a fare i conti con la macchinetta, tanto più la nostra esistenza interiore e con essa quella esteriore può essere vasta e arricchente, per noi stessi e per chi ci sta intorno.

Prima ci rendiamo conto di questo, prima ci rassereneremo, a prescindere da quel che accade intorno a noi.

 

Per approfondire leggi il libro: “Cosa ho imparato dalla vita

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