Intervista allo psicoanalista Antonello Sciacchitano
di Anna Fata
Secondo i più recenti dati ISTAT l’Italia si riconferma tra gli Stati europei con il più alto tasso di persone ultrasessantacinquenni, quota in lento, ma continuo, inesorabile aumento, che attualmente si situa intorno al 22,8% della popolazione nazionale. Questo accade in contemporanea ad un netto crollo delle nascite.
La speranza di vita aumenta, attestandosi intorno agli 80,8 anni per gli uomini e 85,2 per le donne. Questi dati mettono a nudo, però, una grande fragilità del nostro sistema di assistenza, in quanto le persone affette da disturbi cronici aumenta di conseguenza e non sempre le cure sono all’altezza del reale bisogno.
Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale della Salute nelle Regioni Italiane nel 2018 circa il 40% della popolazione ha sofferto di almeno una malattia cronica di cui circa la metà di più di una. Si stima che nel 2028 nella fascia di popolazione tra 45 e 74 anni ipertensione, artrosi e artrite, osteoporosi, diabete, patologie cardiache saranno le malattie croniche più diffuse.
Le donne, in modo particolare, risultano più fragili rispetto agli uomini, con una presenza di cronicità del 42,6% rispetto al 37% degli uomini, che si accentua ulteriormente nel caso di multicronicità.
Interessante notare, inoltre, che gli abitanti del Sud Italia sono svantaggiati rispetto a quelli del Nord, in quanto le percentuali di coloro che soffrono di malattie croniche è superiore. La medesima tendenza si riscontra nel caso del tasso di istruzione: all’aumento di esso corrisponde una diminuzione dell’incidenza delle malattie croniche.
La salute e la cura dell’anziano
Questi sommari dati offrono molti spunti su cui può valere la pena riflettere: aumenta l’aspettativa di vita, ma non sempre né necessariamente si eleva di pari passo la sua qualità in termini di salute. Esistono delle nette disparità di opportunità a seconda della zona di residenza, delle possibilità economiche, dell’estrazione sociale, del livello culturale, così come delle possibili differenti predisposizioni in base al genere di appartenenza.
In ancora meno casi si fa riferimento ad un paradigma di cura integrato capace di non creare frammentazioni nell’approccio alla persona. Al contrario, complice un processo di medicalizzazione, che a volte sconfina in vero e proprio accanimento terapeutico, e il tecnicismo crescente e pervasivo, fanno sì che la persona tenda ad essere considerata come un insieme, non sempre coordinato, di organi dentro un contenitore chiamato corpo, in cui le componenti socio emotive e relazionali vengono ancora meno considerate e curate come parte ed espressione di un tutt’uno.
Questo atteggiamento apre le porte al contributo etico che la psicoanalisi può offrire.
Secondo l’enciclopedia Treccani l’invecchiamento è un:
“Insieme di vari cambiamenti che avvengono nelle cellule e nei tessuti con l’avanzare dell’età, responsabili di un aumento del rischio di malattia e morte”.
Poiché, però, si parte dal presupposto che gli esseri umani sono in grado, volendo, di modificare o rallentare l’andamento del processo inesorabile dell’invecchiamento, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha introdotto il concetto di “invecchiamento attivo” definendolo come un processo per ottimizzare le opportunità per la salute, la partecipazione e la sicurezza al fine di migliorare la qualità della vita delle persone.
I cambiamenti dell’invecchiamento
In tutte queste definizioni, però, sembrano essere particolarmente carenti gli accenni alla dimensione interiore di questo processo, sia per chi è implicato in prima persona, sia per chi si trova accanto a persone già in età avanzata.
D’altro canto c’è stato chi ha differenziato, a questo proposito, l’invecchiamento biologico da quello psichico che insorge quando, in seguito ad un eccesso di perdite, si infrange l’equilibrio tra queste ultime e le acquisizioni e si esprime nell’impossibilità di integrare il dolore e di rinnovare gli investimenti libidici.
Nella vecchiaia, infatti, progressivamente i limiti fisici, le malattie, i dolori, il cambiamento della conformazione e dell’aspetto corporeo tendono ad intaccare il narcisismo, che si esprime nella sua duplice tendenza di investire in se stessi e nell’ampliare i propri confini per includere gli altri.
In questa fase di vita, definita da alcuni “postgenitale”, si ipotizza una riorganizzazione della sessualità in una topica più ampia in cui le esperienze si integrano con gli affetti e la sessualità si estende a quelle parti del corpo disinvestite nella fase genitale e reinvestite in quella postgenitale.
Evoluzione del narcisismo, evoluzione psicosessuale e libidica, quindi, dovrebbero progredire di pari passo. Questo significa concretamente saper alternare in modo equilibrato momenti in cui la persona ritorna in se stessa, si ripiega su di sé, per poi espandersi verso nuovi investimenti. In pratica si tratta di momenti di regressione a servizio della progressione.
In questa dinamica il corpo assume un ruolo centrale e rinnovato. Esso è da concepire non solo come oggetto esterno, concreto, ma anche e soprattutto come interno, rappresentazione mentale. In questo senso non si può fare a meno di ereditare i frutti dell’evoluzione delle fasi precedenti di vita. A questo proposito c’è stato chi come Abraham ha affermato che l’età della nevrosi conta più dell’età del malato nevrotico. Tutto, volendo, si può rimettere in discussione, in qualsivoglia momento di vita, a prescindere dall’età anagrafica della persona.
L’invecchiamento nella dimensione socio culturale
Oggi il contesto sociale, economico, culturale, istituzionale del mondo occidentale non aiuta di certo la persona anziana nel poter rinnovare il suo equilibrio psicofisico, anche se paradossalmente si sforza di farlo adottando modelli di prevenzione, tutela, cura. Forse uno tra i limiti maggiori sta nel fatto che, in parte per forza di cose, vengono modellati in base ad un prototipo ideale di benessere e salute a cui tutti sarebbero chiamati ad uniformarsi.
Viene a mancare completamente l’appello alla unicità e alla soggettività. In verità, ciascuno ha il suo equilibrio, il suo modo di stare bene, con se stesso e con gli altri.
Come se non bastasse, questo modello contemporaneo di cura tende a scotomizzare una tra le paure più grandi che accomuna la maggior parte di noi: l’angoscia della morte, e con essa tutto quello che in molti casi la accompagna e la precede, l’invecchiamento, il decadimento fisico, cognitivo, la debolezza, la fragilità, il rallentamento, la solitudine, l’emarginazione, la malattia.
Non è un caso, forse, che oggi più che mai gli anziani nella nostra società tendono ad essere confinati in luoghi in cui sembrano perdere qualsivoglia ruolo sociale e la solitudine appare il vissuto più diffuso, anche e forse soprattutto in presenza di altre persone più o meno coetanee.
In tali contesti, secondo alcuni, come ad esempio Ancona, vige una sorta di “fetalizzazione” della persona che perde in parte o in toto l’autonomia, fisica, ma ancora più psicologica. Nell’approccio a queste persone, però, si tende troppo spesso a dimenticare che gli anziani non sono dei bambini e non andrebbero trattati come tali. Vige una logica basata sull’assistenzialismo, che sembra prima di tutto funzionale a neutralizzare le angosce relative al proprio decadimento e alla inevitabile, futura morte. Tali angosce si vedono riflesse in chi sta di fronte, per questo l’assistenzialismo tenta di rispondere più alle proprie esigenze di controllo, che non essere in funzione del beneficio di chi riceve tutto questo.
Al contrario, forse, si dovrebbe adottare un approccio più basato sul rispetto dell’esperienza, della saggezza, e ancora più fare leva sulle potenzialità e le risorse rimaste, poche o tante che possano essere.
La solitudine degli anziani e delle famiglie
Anche laddove gli anziani riescono ad essere accuditi presso il proprio domicilio o in quello dei propri figli, le famiglie tendono ad essere lasciate sole con il loro carico di impegni e responsabilità, sia materiali, sia emotive. In tali frangenti, come molti fatti di cronaca testimoniano, si attivano dinamiche conflittuali, ambivalenti, in cui la stanchezza dell’assommarsi degli impegni domestici e professionali, l’inversione dei ruoli genitori-figli, il senso di confusione, vergogna, colpa, compassione, rabbia, ansia, paranoia, si mescolano in miscele che a volte, alla lunga, si rivelano tragicamente esplosive.
La progressiva perdita di indipendenza, e in molti casi anche di lucidità mentale, dei propri genitori riattiva e fa riemergere schemi e fantasmi del passato non del tutto elaborati, che si credevano superati. La relazione con l’altro non fa altro se non stimolare la riemersione di nodi che prima di tutto attengono a se stessi e alla propria esistenza.
L’uso massiccio di farmaci, sia per disturbi organici e corporei, sia psicologici e psichiatrici – questi ultimi in Italia sembrano essere al secondo posto tra quelli più prescritti alle persone di età avanzata – non appare sufficiente per recuperare un senso dell’esistere, superare i vissuti di angoscia, ansia, panico o depressione che si possono di frequente accompagnare in queste situazioni. Non è un caso, forse, che il tasso di suicidi tra le persone anziane è tre volte superiore rispetto al resto della popolazione.
Ciò che oggi, forse, non siamo capaci di comprendere e accettare è il fatto che la malattia e la senescenza per alcuni, la morte per tutti, fanno parte del fisiologico processo del vivere. Vita e morte non sono momenti separati, dicotomici, alternativi, ma due facce della medesima medaglia. Sul piano interiore, in modo particolare, difficilmente la morte si configura come un evento istantaneo, come si tende a pensare da giovani, ma come un lungo, laborioso processo che si compone di alcune componenti simili al lavoro del lutto, soprattutto delle fasi di vita precedenti e di un’ampia quota di perdono.
L’affacciarsi della morte
Nonostante ciò, resta da accettare il punto, forse, più arduo: la morte è e resterà sempre al di là della nostra comprensione, qualcosa di non del tutto definibile, dicibile, condivisibile. Il mistero per eccellenza.
D’altro canto, se il corpo reca con sé un istinto inevitabile di morte, come molte ricerche biologiche sembrano testimoniare, la psiche, invece, sembra che non tenda verso la quiete, il Nirvana, ma al contrario cerca continue stimolazioni e nuovi, successivi equilibri. Il fatto che la psiche possa anche avere una componente distruttiva, la cosiddetta “pulsione di morte”, sembra essere rilevabile soprattutto nei quadri clinici di resistenza alla guarigione, che poi improntano una visione pessimistica in tal senso.
Nell’inconscio ciascuno è convinto della propria eterna giovinezza e della propria immortalità. Non solo la morte, ma anche l’invecchiamento in questo senso appaiono impensabili. Per questo quando il corpo cede, tradisce le aspettative, non risponde più come in passato, non lo si riconosce più, lo si nega, lo si rifiuta. Questo vissuto personale trova spesso il suo eco anche a livello sociale in cui si tende molto spesso a giudicare il prossimo in base a come appare, a come incarna la sua età anagrafica.
Per certi versi di fronte alla propria immagine corporea allo specchio si riattivano antichi fantasmi passati: è al tempo stesso un’immagine erotizzata, illusoriamente senza lesioni, e anche un tentativo di emulazione che non può essere raggiunta e come tale odiata, aggredita.
Di fronte al rifiuto proprio, che è anche quello altrui, si può reagire con una risposta depressiva, di dolore, di svuotamento paralizzante, oppure con il lavoro del lutto che conduce al lasciare andare quello che è stato e che non può più essere.
Si attiva, quindi, nella migliore delle ipotesi, un vero e proprio lavoro interiore legato all’invecchiare che comporta il mettere insieme in modo nuovo e creativo i pezzi della propria esistenza per creare un senso completamente nuovo. In questa concezione si viene a perdere inevitabilmente il mito di una identità solida, unitaria e definita una volta per tutte.
L’intervista allo psicoanalista
Proprio all’interno di questa incessante dinamica interiore che caratterizza ogni momento dell’esistenza umana la psicoanalisi si può a pieno titolo inserire e può offrire il proprio contributo.
Ne parliamo con Antonello Sciacchitano, Psichiatra, Psicoanalista di formazione lacaniana, Saggista, Redattore della rivista di filosofia “aut aut”.
D: In un’accezione psicoanalitica, che cosa è l’invecchiamento e cosa comporta?
R: Prima di aprire il discorso è importante una premessa, necessaria per inaugurarlo e farlo avanzare con un minimo di coerenza: non esiste un’accezione psicanalitica, strettamente freudiana, della nozione di “invecchiamento”. Termini come die Überalterung, das Altern o die Senilität non ricorrono nelle 7000 pagine delle Sigmund Freud gesammelte Werke.
Si direbbe che la psicanalisi freudiana non è né un discorso per vecchi né sui vecchi. In effetti, la teoria sessuale freudiana è prevalentemente una teoria della sessualità infantile; non prevede la sessualità senile. Ancora nel testo del 1925, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi, scritto vent’anni dopo i Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud si occupa esclusivamente dell’affaccendamento onanistico di maschietti e femminucce con i rispettivi organi sessuali, tuttora da scoprire e incerti, soprattutto nel caso femminile, dove si pone l’angosciosa alternativa: clitoride o vagina?
Nel presupposto di una concezione allargata della sessualità, che facesse posto al polimorfismo perverso del maschio, Freud non formulò una teoria del coito. Non trattò la penetrazione (Eindringung) del pene in vagina, quasi che l’organo sessuale femminile fosse un tabù, quindi rischioso, per l’organo sessuale maschile. Ma su questo punto vorrei tornare. In apertura del mio discorso premetto che la teoria freudiana dell’inconscio come struttura psichica senza tempo (zeitlos) non può favorire la comprensione dell’invecchiamento.
La psicanalisi non è un discorso per vecchi, dicevo, anche in pratica. Ai miei tempi in ambiente psi circolava il luogo comune che la psicanalisi non si potesse applicare a chi avesse superato la quarantina. Si giustificava la restrizione con la considerazione di tipo medico della rigidità psichica della persona matura o anziana, che non consentiva modifiche da parte dell’approccio psicoterapeutico.
La mia impressione è che la psicanalisi, codificata nelle istituzione psicanalitiche, non voglia sentir parlare di invecchiamento e di senilità. Non a caso quelle istituzioni sono governate da geronti. Di psicanalisi scientifica, a prescindere dalle prospettive terapeutiche, quindi aperta a ogni età, intesa a restituire al soggetto la propria verità, ai miei tempi non se ne parlava proprio, non differentemente da oggi.
Io stesso, che mi rivolsi alla psicanalisi dopo aver passato la trentina, avendo avuto due esperienze lavorative fallimentari alle spalle in Università e nella Pubblica Amministrazione e volendo cambiar vita, ebbi difficoltà a trovare un analista che si prendesse cura di me. Trovai un’allieva di Lacan, trasferitasi da poco da Parigi a Roma, Muriel Drazien, della quale fui il primo paziente italiano. Aveva la mia stessa età e purtroppo se ne è andata recentemente prima di me. Avevamo scommesso su chi avrebbe tenuto il discorso funebre in memoria dell’altro e lei perse la scommessa. Peccato perché da fine letterata era brava a scrivere necrologi.
La scienza sa dire molte cose sul processo di invecchiamento: come cambia l’assetto metabolico, il quadro ematochimico, il configurarsi di quadri morbosi specifici, tipicamente la demenza senile e l’Alzheimer, attraverso studi finalizzati alla diagnosi, la prognosi e alla prevenzione, non essendoci terapia della senilità. Tuttavia la scienza non sa spiegare perché si invecchia.
A cosa serve invecchiare? Quale vantaggio selettivo offre alla specie? Non sarebbe meglio e forse più bello morire giovani nel pieno della vitalità? È veramente un progressivo addio alla vita l’invecchiamento? Il miglioramento delle condizioni di vita, che porta al prolungamento della vita media e delle aspettative di vita sarebbe qualcosa di innaturale?
La psicanalisi, che nelle intenzioni di Freud doveva essere una giovane scienza, non sa dire molto di più sulle ragioni dell’invecchiamento, esattamente come la biomedicina. Anche la fisica di base dice poco: dice che l’entropia di un sistema termodinamico isolato aumenta. Si decade verso lo stato più comune, più normale e anche più banale. In psicologia si chiama demenza. È una questione di probabilità statistica, poco trattabile in termini di psicologia delle relazioni. E se il sistema non si isola, ma interagisce con altri sistemi, si potrebbe rallentare il processo di decadimento? È un’ipotesi ragionevole.
Che la psicanalisi condivide a suo modo. Si dice comunemente che i vecchi tornano bambini. La psicanalisi, proprio perché si occupa di complessi infantili, tipicamente in versione freudiana centrata sul complesso d’Edipo, “cura” questa regressione infantile. Nel maschio sblocca la fissazione erotica alla madre e supera la rivalità con il padre; nella femmina porta al decadimento di certi ideali di mascolinizzazione, senza precludere possibilità di autoaffermazione. In un certo senso la psicanalisi permette di invecchiare “bene”; apre nuove vie oltre gli stereotipi infantili.
Sullo sfondo del discorso dell’invecchiamento c’è lo spettro della morte. Con la morte Freud aveva più familiarità che con l’invecchiamento. La sua storia mortifera cominciò dalla superstizione di dover morire a 61 anni. Si materializzò nella convinzione di avere un cancro in bocca, per cui si fece massacrare da chirurghi e radiologi. Molto probabilmente anche questa fu una superstizione. Non si trattava di un tumore maligno, di cui erano convinti anche gli allievi, ma di un semplice papilloma da virus sessuale, contro cui oggi si dispone di vaccini.
La teoria freudiana della pulsione di morte, che spingerebbe l’organismo verso il ritorno allo stato organico, ha sicuramente un addentellato autobiografico, come tutta la teoria psicanalitica del resto. Un esempio? Il divano del setting psicanalitico poltrona+divano si dice in tedesco Ruhebett, che ha anche il significato di “tomba” nel senso di luogo dell’eterno riposo. La clinica psicanalitica sarebbe una pratica funebre? L’afanisi del soggetto a opera del significante secondo la teoria lacaniana ha sicuramente un riferimento metaforico analogo.
D: Nel processo della senescenza il corpo e i limiti che spesso comporta come viene vissuto ed esperito sul piano psichico?
R: Neppure del corpo si può dire che sia il cavallo di battaglia della teoria freudiana. È vero che il corpo è la sorgente degli stimoli fisiologici prodotti dagli organi di senso o dagli organi interni. Ma tali stimoli interessano a Freud solo nella misura in cui sono tradotti in rappresentazioni psichiche, cioè nelle cosiddette pulsioni.
Le pulsioni, inizialmente distinte in pulsioni di autoconservazione, o dell’Io, e pulsioni sessuali sono forze costanti, generate alla frontiera tra soma e psiche e animate da un’energia erotica, detta libido.
Non c’è traccia in Freud di una modificazione temporale dell’assetto pulsionale, se si esclude l’evoluzione infantile dallo stadio orale, all’anale, al fallico e allo stadio genitale vero e proprio, che conclude e in un certo senso arresta lo sviluppo psichico. Una volta arrivato alla maturità, l’apparato psichico non si modifica più. In un certo senso dal punto di vista biologico muore. Le pulsioni stesse non variano: sono forze costanti che tendono a una meta: la soddisfazione sessuale, se sono sessuali, la conservazione della vita, se sono pulsioni dell’Io, magari con l’ausilio di qualche variante pulsionale di tipo aggressivo.
Poco più approfondito fu il trattamento del corpo in Lacan; allo schema freudiano Lacan aggiunse la sessualizzazione della pulsione di morte; nella sua versione il godimento va al di là del principio di piacere; sarebbe un di più di piacere, effetto caratteristico dell’oggetto-causa del desiderio.
Le pulsioni rappresentano un compromesso tra due tendenze tipiche del pensiero freudiano: il vitalismo e il determinismo. Non si può dire quale tendenza abbia prevalso. Statisticamente parlando, il termine di “vita psichica” (Seelenleben) ricorre ogni venti pagine delle Gesammelte Werke. Fu il vitalismo a far fallire il Progetto di una psicologia del 1895.
Non si può sviluppare una teoria scientifica in termini quantitativi se predomina una concezione di vita, essenzialmente non quantificabile. Freud ricorse a un escamotage, che sarà poi criticato da Bleuler; inventò un’energia psichica – la libido, come ho detto – che regola tutte le occupazioni psichiche dall’Io (libido narcisistica) all’oggetto del desiderio (libido oggettuale), ma è priva di unità di misura.
Il determinismo freudiano è tassativo: ogni fenomeno psichico è l’effetto di una causa, una pulsione appunto. Non esiste casualità (randomness) nella psiche freudiana; tutto avviene perché ha una giustificazione pulsionale. Ciò si riflette anche nel lessico di Freud, che è animato da “un imperativo bisogno di causalità” (ein gebieterisches Kausalbedürfnis), una coazione tipica della nevrosi ossessiva, come dichiarò nel terzo saggio sull’Uomo Mosè e la religione monoteista.
Oggi l’imperativo scientifico non è più eziologico. In meccanica quantistica, seppure esistono delle cause sottostanti ai bizzarri fenomeni dell’entanglement, per esempio l’azione a distanza, esse restano definitivamente celate. La scienza opera in regime di ignoranza eziologica. Non dovrebbe stupire che non sappia rispondere alla domanda: “Perché invecchiamo?” Una domanda che Freud non si pose, ma intuì che in quell’ignoranza sta il soggetto – letteralmente “è gettato sotto”. (Il soggetto ritorna regolarmente in tutte le questioni di meccanica quantistica, ricordo ai colleghi per i quali la scienza fuorcluderebbe il soggetto.)
Mi si critica perché critico la carenza di scientificità in Freud, che intendeva la scienza ancora in senso ippocratico-eziologico. È un fatto che non esiste in Freud alcun riferimento al calcolo delle probabilità, inventato due secoli prima da Pascal e Fermat e oggi diventato strumento imprescindibile della pratica scientifica: dalla statistica alla meccanica quantistica. In tedesco esiste il termine ambiguo Wahrscheinlichkeit, che significa sia “probabilità”, a livello epistemico, sia “verosimiglianza”, a livello ontologico. Freud lo usò esclusivamente nel senso ontologico di “verosimiglianza”. Per lui probabilità significava un esecrabile indeterminismo, quindi non era scientifica.
Il fenomeno è curioso: l’inventore del sapere che non si sa di sapere, cioè l’inconscio, regredì all’ontologia dei pensatori idealisti, che non prevedi gradi intermedi tra essere e non essere. Si illuse così di procedere in modo scientifico. Non era sbagliato; peccato che si trattasse della scienza antica, intesa in senso aristotelico come scire per causas; la “giovane scienza” freudiana è, infatti, ben lontana dalla scienza galileiana che trova le leggi del moto uniformemente accelerato, più con esperimenti mentali che empirici, a prescindere dalle sue cause.
Nella fattispecie freudiana la causa pulsionale è la causa efficiente della Fisica di Aristotele: produce, quando la produce, la soddisfazione sessuale, dove il soggetto finalmente si riposa dalla sua eccitazione, come il mobile termina il suo moto quando arriva alla propria sede naturale, dove si arresta in quiete. Nella fisica galileiana non esiste la quiete naturale. In assenza di forze il mobile continua all’infinito il proprio moto a velocità costante.
Fu uno shock per gli allievi di Freud la tardiva introduzione di una seconda eziologia pulsionale, quella legata alla pulsione di morte. Dal punto di vista aristotelico il Todestrieb corrisponde alla causa finale: mira a mantenere al livello più basso l’eccitazione psichica, ultimamente riducendola alla quiete del moto naturale, quella dello stato inorganico, smaltendo nella ripetizione delle condizioni traumatiche l’energia introdotta dal trauma nell’apparato psichico. Lo scire per causas fu così definitivamente perfezionato, senza convocare le scienze moderne, anzi allontanandosene ancora di più. Già Cartesio raccomandava di non usare nozioni finalistiche nel ragionamento scientifico, perché non si possono sapere le intenzioni di Dio nel creare il mondo.
Si noti in proposito che l’introduzione del finalismo psichico conferisce a tutta l’elucubrazione freudiana un taglio religioso, che il riferimento preponderante alla funzione paterna accentua e la rigidità dell’ortodossia di scuola sancisce in termini settari. Il fenomeno è tipico di molti pensatori che, come Freud, si dichiararono atei e fondarono scuole di pensiero, le quali divennero a tutti gli effetti delle chiese. Per l’individuo ateo Dio è inconscio, sentenziava Lacan nell’XI seminario. È giusto, a patto di non dimenticare le non secondarie ricadute ecclesiastiche a livello collettivo. La storia dell’ideologia marxista insegna.
D: Se e quanto influisce nel rapporto con l’altro, la sua accoglienza, il suo giudizio, il suo sguardo per l’equilibrio psichico e fisico nel caso particolare di una persona anziana?
R: Anch’io non mi intendo di senilità. Alla soglia degli ottant’anni riconosco a mala pena la mia. Non ho una competenza professionale sul tema né credo che possa esistere qualcosa del genere. Anzi, addirittura credo che si debbano ostacolare progetti orientati in questo senso, apparentemente giustificati in senso scientifico, in realtà medico. Si basano su una fallacia molto diffusa e radicata nel senso comune che parla di “scienza medica”.
La medicina nasce duemila anni prima della scienza moderna con Ippocrate che istituì il paradigma dello scire per causas, di cui la medicina fu il prototipo. Platone riconobbe a Ippocrate l’invenzione del principio di ragion sufficiente: se c’è l’agente morboso, c’è la malattia; se non c’è l’agente morboso c’è la guarigione. Ippocrate è di una puerilità disarmante nel testo Antica Medicina, che contesta la medicina filosofica di Empedocle. Scotomizza i falsi negativi (malattia presente, causa assente) e i falsi positivi (malattia assente, causa presente).
Applicata alla senilità questa mentalità porta al detto di Cicerone: morbus ipsa senectus, la vecchiaia stessa è una malattia. Come dire: la vita stessa è una malattia. È questo l’esito scontato di ogni vitalismo, basato su qualche misterioso élan vitale. La vecchiaia è tautologicamente concepita come venir meno dello slancio vitale. Nel § 35 del suo trattatello De senectute Cicerone afferma che bisogna combattere contro la senilità come contro la malattia. È giusto, a mio parere, combattere contro la concezione medicale che riduce la senilità a malattia.
Tuttavia, tornando alla psicanalisi, a parziale correzione di quanto precede, devo dire che nel freudismo esiste una figura senile emblematica: il padre primordiale della mitica orda primitiva (Urhorde). Non è tanto vecchio, tuttavia, se è vero che funziona da stallone (Männchen) che tiene per sé tutte le donne e obbliga i fratelli all’omosessualità. Del resto si sa che basta una piccola differenza d’età per istituire la funzione paterna. Quanti fratelli maggiori si sono trovati a far da padri ai fratelli minori!
Freud si appoggia all’autorità di Darwin per giustificare il proprio mito. È un falso. Darwin non ha mai parlato di orde, ma di piccole comunità. Freud aveva in biblioteca L’origine dell’uomo (1872), ma non L’origine delle specie (1839). Non amava Darwin, cui preferiva Lamarck per via dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, ma avrebbe imparato molto dal delizioso La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico (1868); se non altro si sarebbe familiarizzato con il concetto di variabilità, che sta alla base di tutti i fenomeni collettivi di popolazione. Il termine Variabel non ricorre sotto la sua penna. La variabilità degli effetti era incompatibile con il suo rigido determinismo.
Non c’è molto sugo da spremere da Freud in questo senso. Anche la sua psicologia delle masse è una psicologia individualistica, basata com’è sull’identificazione di tutti e di ciascuno al proprio Führer, posto come oggetto d’amore a livello dell’ideale dell’Io.
Oltre all’invecchiamento del singolo, Freud ignora la dimensione della convivenza globale. Se è vero che Homo sapiens si è evoluto, si è evoluto insieme a molte altre specie, considerate erroneamente inferiori: virus, batteri, protozoi, alghe, tutte dotate di una particolare sapienza quanto a capacità di sopravvivere. Un poeta, Walt Whitman l’aveva capito meglio dell’analista: “Io sono moltitudini”. Invecchiare significa anche ridurre la molteplicità delle potenzialità iniziali del soggetto; significa ridurlo alla singolarità di una monade, senza contatti con le altre monadi.
Lei mi chiederà com’era visto dai fratelli il mitico Urvater dell’altrettanto mitica Urhorde? Era concepito all’interno di un complesso ambivalente di sentimenti di odio e di amore. L’odio avrebbe portato al parricidio collettivo, l’amore all’identificazione di tutti i fratelli al padre morto. Secondaria in questa mitologia, come in generale nella mitologia edipica, è la funzione delle sorelle. Il risultato è per i maschi una sorta di invecchiamento precoce: ognuno diventa come il padre, all’insegna del motto autocontraddittorio: come il padre NON devi essere, nel senso che ti è interdetta la madre, e come il padre devi essere, nel senso che ti sono concesse tutte le altre donne.
Con questa senilità per così dire acquisita inizia per il soggetto individuale la convivenza all’insegna della legge che vieta di uccidere l’altro, sé stessi compresi. Lacan ci costruirà sopra la sua teoria sulla funzione del Nome del Padre, funzione simbolica per eccellenza, la cui assenza, dovuta al decadere del significante paterno dal registro simbolico nel reale, porterebbe alla follia. Insomma, esisterebbe un invecchiamento precoce, dovuto all’identificazione paterna, che porta il soggetto a convivere con altri soggetti, prima in famiglia, poi in società.
Naturalmente non si discute l’ipersemplificazione propria di questa teoria psicogenetica, che fa dipendere ogni vicenda soggettiva dall’alto, escludendo le interazioni orizzontali tra pari. In psicanalisi, anche nella versione lacaniana dell’Altro simbolico, luogo della Legge e della Verità con le maiuscole, non esiste “l’altro generalizzato”, o collettivo nel senso di Herbert Mead. Il risultato è la difficoltà di pensare in termini psicanalitici il soggetto collettivo, come tenteranno Jung e Lacan, quest’ultimo con la teoria di discorso come legame sociale.
D: Oggi sul piano sociale si assiste a una duplice, spesso contraddittoria spinta: da una parte la tendenza alla segregazione, al confinamento della malattia, della decadenza fisica e psichica, e con esse della pressoché inevitabile morte finale, e dall’altra la proposta di un modello attivista, basato sulla stimolazione individuale, sociale, ludica, sanitaria, con occasioni di prevenzione, cura, intrattenimento, socializzazione. Talvolta quest’ultima spinta, però, tende a celare un tentativo di “ringiovanimento” forzato delle persone, di uniformazione ad un modello di gioventù e benessere a cui sembra che tutti si debbano adeguare. Su un piano interiore se e come può essere possibile trovare il proprio equilibrio quando si viene costantemente stimolati in modi così ambivalenti?
R: Certo, non si invecchia da soli. Invecchiano anche i legami che il soggetto ha creato con altri soggetti coetanei. I modelli culturali oggi prevalenti sono giovanilisti. Tendono a premiare e in certo senso a forzare le prestazioni. Il successo effimero del Viagra si giustifica così. Ma l’anziano secondarizza le prestazioni a vantaggio delle riflessioni, almeno nello spazio lasciato libero dall’invasione pubblicitaria.
Non so come i miei colleghi vivano questa spinta al giovanilismo. Non credo di essere un’eccezione se la considero il portato nei giovani di un senso di colpa edipico, dovuto al desiderio di far fuori i vecchi con la relativa iper-reazione correttiva. D’altra parte quello dell’eterna giovinezza è un mito presente in tutte le culture. Rientra nel vitalismo imperante dappertutto. Non è invenzione dei nostri tempi.
Il problema non è correggere il singolo mito, sostituendolo con altri miti; l’essenziale è cambiare il modo di pensare. A pensarci bene quello mitologico è un pensiero di grado zero: spiega il simile con il simile in modo omeopatico, ben che vada metaforico. Spiegare il desiderio del parricidio con il mito di Edipo è una forma di tautologia; come tutte le tautologie è sempre vera, quindi non ha bisogno di conferme empiriche. Il principio di identità è alla base di ogni ontologia: l’essere è, il non essere non è.
La scienza moderna è tutt’altra cosa. Non presuppone verità date a priori in modo metafisico. La scienza cartesiana, fondata sul dubbio, presuppone che tutto il verosimile sia falso e procede a falsificarlo. Il modo di procedere ex falso è ancora inconsueto, per non dire osteggiato, in psicanalisi. La quale non ha dubbi; è ferma al dettato platonico: “Non si può opinare il falso” (Teeteto, 188 b-d).
E pensare che Freud si dedicò da subito ad analizzare sistematicamente fenomeni psichici falsi: il sogno che è una falsa (allucinata) realizzazione di desiderio, il lapsus che è una falsa prestazione, il ricordo che è un falso ricordo di copertura, il transfert che è un falso amore, l’interpretazione analitica che spesso è una falsa interpretazione. Insomma, viviamo in un oceano di falsità, giovani e vecchi. Grazie al falso possiamo sfiorare la verità in qualche raro momento in cui viene falsificato.
Per il resto del tempo siamo dominati da un’onnipotente volontà di ignoranza: del falso non vogliamo sapere che è falso. Ci piace attenerci scrupolosamente alle ideologie vigenti all’insegna del conformismo. È un modo di amare il padre padrone. In fondo gli siamo grati perché ci dà delle certezze in cui credere. In questo senso avremo sempre bisogno del vecchio che ci insegni le verità della vita.
D: Spesso oggi, complice anche la cosiddetta “crisi economica”, molti anziani sono giocoforza costretti al ruolo di balie dei propri nipoti, di frequente sottoponendosi a ritmi di vita molto pieni e intensi. Anche se, molto probabilmente il contatto con le nuove generazioni può apportare rinnovata vitalità in chi è più avanti anagraficamente, al tempo stesso lo stress, l’ansia, la fatica, le preoccupazioni per le grandi responsabilità possono mettere a dura prova l’equilibrio e la salute degli anziani. Se e come può essere possibile trovare un equilibrio in queste situazioni?
R: Non ho pazienti ottantenni in analisi, escluso me stesso, pur avendo avuto analizzanti che sono invecchiati di vent’anni sul mio lettino. Mi sopporto con il poco testosterone che mi ritrovo. Con questo non posso negare di avere desideri sessuali.
Il desiderio sessuale è indipendente dall’organo, come sanno bene le donne. Sesso a parte, sono spesso ricercato dai miei nipoti per quel residuo di capacità intellettuali di cui dispongo. Per esempio per risolvere problemi di matematica. L’esercizio intellettuale mi fa sentire giovane. Mi addormento dimostrando qualche teorema di Euclide.
Tutto sommato, sono una persona soddisfatta. Mi accontento di piccoli riconoscimenti. I maggiori verranno post mortem.
D: Solo di recente si è cominciato a riflettere apertamente sulla vita affettiva, e in molti casi anche sessuale, delle persone avanti con gli anni. Se e come cambiano i rapporti di coppia con il maturare anagrafico delle persone?
R: Invecchiando i sensi si acquietano. I rapporti diventano più tranquilli ma anche più pensati, più intensi anche se ridotti di numero. Non è vero che gli affetti diminuiscono. C’è un approfondimento per così dire rassegnato.
Il mio maestro predicava sul finire del suo percorso intellettuale, già vicino agli ottant’anni: “Non c’è rapporto sessuale”. Questa è una verità comune a tutte le teorie sessuali infantili, che non arrivano a concepire la penetrazione del pene in vagina. Die Peniseindringung non ricorre neppure nelle opere di Freud, come ho già detto. Altro che ossessione sessuale!
D: All’opposto di coloro che possono beneficiare di una proficua vita sociale e/o di coppia, esistono ancora moltissime persone – e forse in molti casi rappresentano la maggioranza – che soffrono di solitudine. In tanti casi si tratta di una solitudine sia fisica, sia psichica, in altri solo di una sua percezione, anche all’interno di contesti sociali più o meno strutturati. Se e quanto può influire il senso di solitudine per un buon equilibrio psicofisico, ancora più per le persone di età avanzata?
R: Si deve arrivare a pensare come gli antichi: beata solitudo, sola beatitudo. La solitudine è parte essenziale della vita: si nasce in due, si muore soli, dice la canzone di De André. Non c’è cura per la solitudine come non c’è cura per la morte. Cur morietur homo cui crescit salvia in horto? Contra vim mortis non est medicamen in horto, raccontava il latino maccheronico della Scuola medica salernitana.
La solitudine in vita prefigura la morte. Non è vero quel che dicono i filosofi, che non si può pensare la morte. Si vive nella morte e per la morte (zum Tod), dicono altri filosofi. A chi credere?
D: L’età avanzata, tra le altre cose, offre molto tempo e numerose occasioni per il riposo, la riflessione, il ricordo. Tutto questo spesso si traduce nel tentativo di inquadrare in una cornice di senso la propria storia. Talvolta questo processo conduce a nuovi stimoli, azioni, comportamenti, talaltra, invece, reca con sé vissuti depressivi, ansiogeni, di perdita di senso, inutilità, rimpianto, resa, rancore, rabbia, odio, paralisi. Se e come è possibile fare in modo che la ricostruzione della propria storia – che in molti casi, in realtà, è un percorso che, a più riprese, si effettua lungo il corso dell’intera esistenza – possa apportare nuova linfa all’esistenza, anche in età avanzata, e non sia occasione di rimpianto, depressione, impotenza e resa?
R: I miei avanzamenti nella teoria psicanalitica, a cominciare dall’indebolimento eziologico, incarnato nel principio di ragion sufficiente, e dalla riscoperta della logica intuizionista, che non prevede il principio del terzo escluso e prefigura l’ingresso dell’infinito nella teoria, sono avvenuti tutti in età presenile molto dopo i quarant’anni (45 è il limite convenzionale). Ho cominciato a fare teoria quando ho smesso di innamorarmi delle donne.
Valeva la pena? Credo di sì; credo che l’innamoramento senile sia sempre un fatto patologico. Lo dico in confronto con i miei innamoramenti giovanili, indiscutibilmente patologici. Sia chiaro: l’innamoramento non è amore, anche nel caso dei transfert che si registrano nella clinica psicanalitica. L’innamoramento è una forma di resistenza all’amore, maschera l’odio. L’anziano dovrebbe aver superato gli infantilismi erotici. Non condivido certe esaltazioni delle passioni, che imperversano anche nei social.
D: Le più o meno rare volte in cui si affaccia il pensiero della morte da giovani essa può apparire in una veste anche assai diversa da come si configura in altre fasi di vita e ancora di più in età avanzata. Se e come cambia la percezione della morte nei principali stadi dell’esistenza umana?
R: La fissazione alla morte può essere un pensiero giovanile, forse immaturo. Freud lo spiegherebbe come ritorno del rimosso desiderio di uccidere il padre. Il fenomeno è più complesso.
Non posso dimenticare il caso di una giovane paziente che si suicidò subito dopo avermi chiesto un appuntamento per telefono. Avevo aperto da poco lo studio di psicanalisi. Ricordo la sua voce giovanile, molto ferma e decisa. Aveva deciso di salutare uno sconosciuto. La vita, questa sconosciuta. L’analista non deve dimenticare di rappresentare spesso l’oggetto morto del desiderio. In analisi le isteriche tentano di resuscitarlo seducendo l’analista.
D: Non è infrequente osservare, talvolta, delle persone di età avanzata con numerose sofferenze e malanni del corpo invocare la morte, anche accoratamente, al fine di poter porre fine al peso di tali fardelli fisici, e in ampia parte anche psichici. Al tempo stesso, per certi versi paradossalmente, si palesa un attaccamento simbolico alla vita immenso. Se e come si conciliano queste istanze contraddittorie dentro di noi?
R: Conciliare istanze contraddittorie fu il compito della filosofia idealista di Hegel, che mirava all’acquisizione del sapere assoluto. Personalmente mi attirano altri ideali, per esempio quello di porre la psicanalisi su basi scientifiche. Scelgo assiomi in parte freudiani: l’esistenza dell’inconscio, l’esistenza della rimozione originaria, l’acquisizione differita del sapere; e in parte lacaniani: l’esistenza del transfert come supposizione (falsa) di sapere nell’altro. La teoria che può derivarne fa a meno di riferimenti metapsicologici pulsionali.
D: Tra chi considera la morte il più grande mistero in assoluto e chi, all’opposto, ritiene che lo sia la vita, tra chi afferma che non esiste differenza tra le due, ma che sono due espressioni compresenti dell’esistere, due facce della medesima medaglia, senza soluzioni di continuità e che, in realtà, in ogni istante muore continuamente qualcosa di noi, sia nel corpo, sia nella mente, anche se in molti casi non ce ne rendiamo conto, cosa può dire la psicoanalisi in merito?
R: La psicanalisi nasce come discorso vitalista, non diversamente dalla filosofia occidentale che nacque con l’ilozoismo greco. Giustamente oggi Freud e Lacan sono finiti nelle ultime pagine dei manuali di storia della filosofia dei miei nipoti. Certo, poi il vitalismo freudiano si conclude con la pulsione di morte. Con una certa coerenza, nonostante tutto. Darwinianamente parlando, si vive per morire, dopo aver fatto figli.
D: Come si pone la psicoanalisi sulla scelta di come concludere la propria esistenza e sull’eutanasia?
R: Lei mi pone domande come se la psicanalisi potesse rispondere a tutto. La psicanalisi comincia solo a ottant’anni dalla morte di Freud a pensarsi faticosamente come scienza. Contrariamente a quanto pensava Freud, la scienza moderna, a differenza dall’antica, non ha concezioni del mondo, perché la scienza non è solo conoscenza, ma anche fantasia e invenzione, appunto, di mondi nuovi: i cosiddetti paradigmi secondo Kuhn.
Il mondo, in particolare il mondo della vita (die Lebenswelt), come “cosa in sé”, è un artefatto filosofico. Si aggiunga poi che la scienza moderna è essenzialmente incompleta; in aritmetica esistono enunciati che non si possono né dimostrare né confutare (primo teorema di Gödel), a cominciare dall’affermazione della sua coerenza (secondo teorema di Gödel); in logica non si può definire il predicato “verità” che stabilisca in modo meccanico, cioè algoritmico, la verità di un enunciato, se è vero, o la falsità, se è falso (teorema di Tarski); la fisica non sa decidere se è vera la teoria deterministica della relatività o la teoria indeterministica della meccanica quantistica; in biologia non si sa se l’evoluzione naturale ha altri fattori oltre la selezione ambientale.
Insomma, la scienza non ha le certezze di una religione: è frutto di dubbi e ripensamenti. Non opera con verità ma con congetture né vere né false. Non sorprende che alla scienza si resista, talora fanaticamente, mentre le religioni creano regolarmente entusiasti e … fanatici. A tanto spinge il bisogno di certezza in un mondo che si fa sempre più complesso e incerto da interpretare.
Alla domanda che lei mi pone non c’è risposta predefinita. Le posso dire quel che ho appreso da Freud e da Lacan. La psicanalisi è un esperimento morale. Ma la sua morale rimane sempre par provision, come insegnava un saggio di nome Cartesio.
Alla questione dell’eutanasia un soggetto può rispondere sì, un altro no. Entrambi hanno le loro ragioni. Non esiste una ragione terza superiore.
La legge civile dovrebbe garantire la libertà di scelta morale. A me basta sopravvivere giorno per giorno. Perciò ogni giorno decido liberamente se por fine ai miei giorni o se continuare a penare con i miei cari e per loro. Il diritto alla felicità è un’illusione iscritta nella costituzione nord-americana. Non disilludiamo i piccoli che ci credono. Un maestro, che non voleva che i suoi discepoli si dichiarassero maestri, mi ha insegnato: “A ogni giorno il suo affanno” (Matteo, 6, 34).
D: Per concludere, il dubbio esistenziale su cui forse, almeno una volta nella vita, abbiamo riflettuto un po’ tutti: quale è il senso della vita del vivere (e del morire), se esiste?
R: Per chi non crede nella Divina Provvidenza la vita non ha senso a livello individuale. Comincia ad aver qualche senso a livello collettivo, a posteriori, raggiunti certi livelli di civiltà che all’inizio non si potevano prevedere.
Homo sapiens che scheggiava pietre – e prima di lui altri ominidi – è lo stesso che oggi a livello epistemico costruisce computer quantistici e a livello ontologico guerreggia contro popolazioni minoritarie di altre religioni. C’è un senso in tutto ciò? Sinceramente io non ne vedo molto, ma non pretendo che la mia opinione sia condivisa. Sono un analista, non un maestro.
La mia opinione, che ho mutuato dal matema lacaniano dei quattro discorsi, tra i quali il discorso del maestro è l’inverso del discorso dell’analista, è che i grandi maestri di psicanalisi siano stati cattivi analisti. L’esempio lampante fu Freud, che ebbe l’onestà di pubblicare i propri casi clinici fallimentari, perché non lo imitassimo. Probabilmente le due funzioni sono complementari e necessarie l’una all’altra: ci vuole chi insegni la psicanalisi in teoria e ci vuole anche chi la metta in pratica, magari per confutarla. Nella scienza si fa così da Galilei in poi.