Il lavoro come missione di vita

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Realizzare se stessi nella vita e nel lavoro
di Anna Fata

Fin da piccoli una delle attività che maggiormente ci coinvolge, ci interroga, ci entusiasma consiste nel pensare al nostro futuro, immaginarci da adulti, come potremmo essere, dove, con chi e soprattutto a fare cosa.

Cosa vuoi fare da grande“: è uno dei titoli dei temi che quasi immancabilmente ogni docente di tutti gli ordini e gradi assegna prima o poi ai propri allievi.

Nel tempo possono cambiare le risposte, oppure si può essere molto convinti delle proprie idee assai precocemente, che poi si traducono in progettualità concreta, giorno dopo giorno fino a raggiungere la meta tanto sognata e ambita.

In questo ampio e multisfaccettato progetto di vita, oltre alla sfera privata, affettiva, familiare, amicale, un peso sempre più consistente sta assumendo oggi l’ambito professionale. Il lavoro sta diventando sempre più qualcosa di ambito, sognato, sperato, qualcosa di amato e odiato al tempo stesso. L’amore può scaturire dall’essere fonte di realizzazione personale, dal sentirsi utili, valorizzati, dall’acquisire un ruolo sociale, dall’ottenere diverse forme di gratificazione, economiche e non. L’odio, più o meno riconosciuto e celato, può essere connesso alle responsabilità che il lavoro comporta, ai sacrifici che richiede, alle limitazioni della libertà e molto altro che può suscitare a seconda delle nostre disposizioni personali.

Il lavoro come missione di vita

La ricerca della propria missione di vita: questa può essere definita come la priorità che un numero sempre più ampio di persone sta perseguendo al giorno d’oggi.

Una volta dato un abbozzo di risposta, per quanto labile e provvisorio, all’eterno quesito “Chi sono io?”, ad un certo punto della propria esistenza si affaccia un altro dilemma, forse anche più radicale e lacerante circa quello che la vita chiede a ciascuno di noi. Tutti ci troviamo in questo mondo per una qualche ragione, e prima o poi siamo chiamati a prenderne atto e a cercare una risposta.

Se, però, questa risposta si tenta d’ingabbiarla solo ed esclusivamente, o quasi, sotto una luce professionale, non solo si rischia d’imprigionare un’ampia parte di sé e di disconoscere il patrimonio ben più ampio e sfaccettato di cui siamo portatori, ma si limita ad un’espressione per forza di cose troppo ristretta.  Ancora peggiore può essere il rischio che si corre nel momento in cui, per qualsivoglia motivo, questo ambito di azione e di espressione dovesse venire meno, per sopraggiunti limiti d’età, licenziamento, o impossibilità fisica. In tali casi  un’ampia parte della propria identità verrebbe irrimediabilmente meno.

E, allora, chi si potrebbe essere senza il proprio lavoro, il proprio stipendio, l’auto aziendale, l’ufficio, lo status, le proprie mansioni? Chi si diviene ai propri occhi e di fronte a quelli degli amici, del partner, dei parenti?

Laddove il senso di svuotamento, la perdita del senso esistenziale, della propria ragione d’essere, d’esserci, di fare, di occupare uno spazio e un tempo dovessero svanire con l’allontanamento e/o la rinuncia alla sfera professionale, sarebbe auspicabile rinegoziare completamente il proprio spazio vitale pena il rischio di cadere vittima di un forte squilibrio psichico, emotivo, spirituale. Oppure, forse, sarebbe meglio provvedere prima e non rischiare di cadere in questi estremi che, prima o poi, ciascuno o quasi dovrà affrontare.

Difficilmente la vita chiede ad una persona una realizzazione completa ed esclusiva in un ambito, ivi compreso quello professionale. Siamo chiamati a prenderne atto, ascoltando con onestà e apertura quel che la vita cerca di trasmetterci, evitando di commettere l’errore e la presunzione di volerci mettere al suo posto.

In questo processo, inoltre, non possiamo permetterci di rischiare di cadere in un individualismo esasperato, ma siamo chiamati a tenere sempre presente la nostra natura di esseri interconnessi che con la loro essenza ed azione offrono un contributo attivo al mondo sociale di cui sono parte.

Quando il lavoro ci esaurisce

In genere, la spirale dell’esaurimento psicofisico si avvia in modo subdolo e silenzioso. Dall’esterno, chi sta intorno nota questo processo, ma chi lo vive in prima persona fatica a riconoscerlo. A fronte di richieste sempre più pressanti di lavoro, si tende a rispondere con ancora maggiore impegno ed energia, quando già le risorse in realtà vacillano e avrebbero bisogno di un periodo di riposo per il recupero.

I primi sintomi fisici, di tipo funzionale, senza causa organica tendono ad essere sottovalutati, ci si rassicura mentalmente che non dipendono da alcuna patologia conclamata, e che come tali non sono particolarmente gravi. Questo, però, è solo l’inizio. L’usura fisica ed emotiva, nel tempo, può arrivare ad intaccare anche il substrato organico, determinando vere e proprie malattie, che si affiancano ad un sempre più marcato ritiro sociale, all’abdicazione a qualsivoglia altra attività che non sia quella professionale. Tutto questo si può accompagnare anche a: sensi di colpa, sbalzi di umore, apatia, irrequietezza, pensieri di fallimento, problemi di concentrazione e memoria.

I segnali che il corpo e la psiche sono fondamentali per potere comprendere ed eventualmente riorientare la nostra esistenza privata e professionale. I sintomi non sono mai da combattere in sé e per sé. Essi rappresentano non solo l’indicazione di un disagio, ma suggeriscono anche la strada verso cui è possibile incamminarsi per stare meglio. In questo segno sono alleati preziosi per noi, vanno ascoltati e curati in quanto tali, senza avere fretta che passino con una pastiglia o altre forme di terapia che ci promettono una guarigione istantanea e senza sforzo.

Quanto prima si interviene per riconoscere e interrompere il processo involutivo insito in questa spirale, tanto più rapido è il processo di risalita, meno gravi possono essere le ripercussioni fisiche, emotive, sociali, professionali conseguenti.

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