Cos’è la Meditazione e come può aiutarci a vivere meglio

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Intervista a Gianfranco Bertagni
Di Anna Fata

 

La Meditazione sta diventando sempre di più una pratica alla portata di tutti. Nel nostro mondo occidentale se ne parla, si discute, ci si confronta, anche se forse a volte in alcuni contesti sembra mantenere un’aurea di mistero, di mistificazione, che non sempre contribuisce ad una corretta informazione e formazione in materia.

La Meditazione, d’altro canto, da alcuni anni è entrata a pieno titolo nei contesti medici e clinici, negli ospedali, nelle case di riposo, nelle strutture di riabilitazione e cura ed è diventata oggetto di seri e approfonditi studi e ricerche scientifiche che testimoniano i numerosi benefici per la salute fisica ed emotiva che tale pratica comporta.

Essa, inoltre, sta avendo sempre più spazio anche nei contesti aziendali in cui viene insegnata e praticata con grandi benefici per le performance professionali, i rapporti tra i colleghi e con i superiori, il miglioramento della salute e la riduzione dello stress.

Abbiamo deciso di approfondire la conoscenza di questo argomento grazie ad una intervista a Gianfranco Bertagni, Docente presso la Scuola di Filosofia Orientale a Bologna, Cagliari, Palermo, Studioso e Insegnante di Meditazione, Scrittore di numerosi libri filosofici, religiosi, storici.

 

D: Se dovessi dare una definizione di Meditazione ad una persona che non la conosce affatto, che cosa le diresti affinché essa possa agevolmente comprenderla?

R: È molto difficile dirne qualcosa. Inizi forse con una certa idea, che a volte viene approfondita da letture. Ma la pratica ti conduce in un luogo, in un sapore che sempre più non sai. E allora dire cosa sia è qualcosa di arduo, è quasi una costrizione a tornare a quella dimensione concettuale da cui la meditazione è solitamente abbastanza lontana, per il suo essere questo spazio di ascolto del sentire. Ecco: la meditazione, se proprio dovessimo dirne qualcosa, è il luogo del sentire.

 

D: Che suggerimenti daresti ad una persona che non ha mai praticato la Meditazione ma che vorrebbe avvicinarsi ad essa?

R: La pratica è esperienza di bellezza, partiamo da qui. Allora quel momento supremo che è quello della meditazione è qualcosa che tutti noi abbiamo vissuto e viviamo. Sono in questo riconoscimento? Cosa accade nel momento della bellezza? Che sia bere un caffè al bar, che sia un guardare un’opera d’arte, un andare in bicicletta una domenica mattina in una freschezza primaverile, che sia uno stare in pace su un divano senza nulla da fare, …

Ovviamente è un momento di grande mistero, ma riconosco che c’è un’adesione totale all’evento tale per cui non c’è nessuna distanza tra me ed esso; l’esperienza di bellezza è tale per cui in me si produce un largo vuoto, che è il vuoto del mio io, perché questa bellezza possa manifestarsi pienamente. E sono totalmente nell’adesso, perché – come diceva Simone Weil – solo nella bellezza si è in ciò che si è senza desiderare altro rispetto all’esperire del momento presente.

Bene, ci sono persone che sentono più fortemente di altre questi momenti del tutto quotidiani, ordinari, come momenti di splendore. Direi allora: per chi non avesse mai praticato, cominci da queste esplorazioni. Alcuni le sentiranno come esperienze di vera e propria Grazia. Ecco: da qui può iniziare un percorso nella pratica.

 

D: Come è nata la tua passione per la Meditazione?

R: Non da un problema da risolvere. Ma da un sentire da esplorare ulteriormente. Poi la pratica può lavorare su certi meccanismi, va bene anche questo, ma è un’altra questione.

Io sono partito da momenti che sentivo come estremamente potenti, vere e proprie rapine del mio io: la disciplina tipica del karate che ho praticato tanti anni, il silenzio mentale delle scale e degli esercizi di pianoforte così odiati da molti, quella condizione di centratura e stasi mentale durante alcuni esercizi scolastici di matematica, momenti di quiete in casa in pomeriggi o domeniche di non fare pressoché assoluto o spesso seduto nel bosco in solitudine. Ho sempre sentito un mistero sacro (parola immensa, ma che mi permetto di usare) presente, insondabile certo, ma vivente in questi momenti.

 

D: A tuo avviso, in cosa consiste, se c’è effettivamente, un lato filosofico o spirituale della Meditazione e se è conciliabile anche con una eventuale pratica della propria religione?

R: C’è assolutamente un lato filosofico, spirituale, e religioso delle pratiche meditative. Esse nascono spesso in ambiti religiosi e sono pensate e praticate in questo tipo di contesti. Ora però la provenienza storica di una certa pratica forse non dice tutto, forse non dice la questione centrale di cui è portatrice quella pratica, nella stessa misura in cui – per esempio – il sapere il contesto storico e religioso in cui è vissuto Meister Eckhart non mi fa entrare nel contatto più intimo con una pagina di una sua predica.

Detto questo e da tutto questo distinguerei la dimensione spirituale e filosofica, che spesso, direi quasi sempre, è la base di necessaria partenza e a volte di aiuto reale nella pratica meditativa. Un aiuto però che nella pratica stessa deve bruciare qualsiasi suo contenuto. Per accedere alla pratica ho spesso bisogno di una geografia di riferimento, ma nell’affondare in essa qualsiasi cartina geografica deve annullarsi in una dimensione di non sapere assoluto. Finché so la pratica, cosa essa sia, da dove parta, quale sia il suo meccanismo d’azione, dove mi conduca, non sono ancora nella pratica. È pur vero che oggi tante pratiche meditative si presentano in questa modalità “confezionata”: infatti sono solo tecniche, al limite piacevoli momenti di relax.

 

D: Numerose ricerche scientifiche attestano i benefici per la salute fisica, cognitiva ed emotiva della pratica costante della Meditazione, nonostante ciò in alcuni ambienti medici e clinici sussistono delle resistenze al riguardo. Cosa potresti dire a medici, psicologi, operatori sanitari, infermieri per facilitare l’adozione della pratica meditativa anche nei contesti clinici?

R: C’è una vecchia canzone di Van Morrison, in un cui verso dice “No guru, no method, no teacher
Just you and I”. Ecco: direi quello.
Nella stessa misura in cui la tecnica, il sapere la pratica mi separa dalla pratica stessa, dal suo lavoro profondo nel mio non sapermi, così anche qualsiasi pratica divenuta procedura per capire, per essere più performante, per accostarmi, per contattare il paziente diviene inutile, offesa alla purezza della pratica stessa e mancanza di rispetto profondo di chi ho davanti.

Quando c’è una pratica ripulita di tutto questo, allora essa può dire qualcosa anche nel mio lavoro di terapeuta, di operatore clinico in genere.
Questo tipo di figure professionali però spesso sono in grande chiusura: vogliono dimostrare, vogliono raggiungere l’obiettivo, hanno le loro menti infarcite di strategie da mettere in atto. Allora l’altro è solo un oggetto da cui mi proteggo e che attacco con il mio sapere per nascondere la mia paura, il mio brancolare. Questa cosa viene sentita, il paziente si sente aggredito e la chiusura si stringe sempre più.

La pratica invece è di totale spoliazione: è qui che il paziente viene toccato. Sono nudo di fronte a lui. C’è un’apertura totale, c’è grande sincerità. Tutto questo passa, lo sente. Non è più un oggetto da lavorare, da giudicare. Allora c’è la possibilità che quella contrazione presente sotto forma di psicopatologia inizi a sciogliersi. Se invece avvicino una persona con le mie procedure e classificazioni, c’è solo violenza. Nel primo caso invece c’è la possibilità di una diversa visione delle cose: da lì un inizio autentico, anche da un punto di vista terapeutico – perché soprattutto umano.

 

D: Parliamo ora, invece, delle persone che praticano la Meditazione da parecchio tempo. Uno degli effetti della pratica, tra i tanti, è la messa in dubbio di ogni fenomeno che si osserva, a cominciare da se stessi. Al limite, a volte, può capitare di dubitare persino della pratica stessa. Come fare a comprendere che quello che si sta facendo da giorni, mesi, anni è effettivamente Meditazione e non qualcosa d’altro, magari solo semplice rilassamento?

R: Affidandosi alla pratica, senza giudicarsi in quanto praticanti, senza giudicare la pratica, senza chiedere ad essa di portarci in qualche magnifico luogo di nirvana mistico.
La dimensione del rilassamento e a volte momenti di grazia di rilassamento profondissimo nel quale l’esperienza corporea si fonde con tutta l’aria attorno a noi sono realtà indubitabili della pratica, ma sono suoi semplici effetti, non il suo scopo.

Soprattutto all’inizio però, assai spesso, entro nella pratica con i miei sogni di miglioramento, con i miei scopi che associo alla pratica stessa e soprattutto con una volontà interiore di concentrazione che con la meditazione ha poco a che fare. Tutto questo me lo posso portare avanti anche per tanto tempo, anni e anni. Ho la sensazione che la pratica sia sbattere la testa contro il muro più e più volte fino a che questo muro finalmente crolli. È un fraintendimento totale. Però è un fraintendimento che ha una sua funzionalità: quella di esperire pienamente l’idiozia di tutto ciò. E allora è come se invece che far crollare il muro a un certo punto fosse la testa a spaccarsi, cioè un certo meccanismo, un certo atteggiamento mentale volto alla pratica scompare. La risollevo verso il muro e scopro che non c’è nessun muro, non c’era mai stato. È veramente un momento magico, indicibile. Ecco: inizia qui la pratica autentica di meditazione.

Pratica che è passività, ricezione, non fare, non ricerca, accoglimento, stare-con. Il suo contrario, che è lo spazio della concentrazione, fatto di attività, fare, voler arrivare, sforzo,… appunto: è il contrario. Ma si parte quasi sempre da lì. È un atto di semplicità e di umiltà riconoscerlo, vederlo, viverlo fino a che qualcosa dentro non si spezzi.

 

D: Una delle condizioni per avvicinarsi alla Meditazione consiste nel non avere aspettative. Sembra facile, in realtà ha del paradossale. Che consigli potresti dare per superare questa contraddizione di fondo, cioè impegnarsi in qualcosa che sembra non avere alcuno scopo?

R: Siediti e stai lì. C’è tutto. Il paradosso e il suo senso.

 

D: Ultimamente si sente molto parlare della pratica meditativa rivolta ai bambini. Se e in cosa differisce rispetto a quella praticata dagli adulti?

R: Non me la sento di parlare di cose su cui non ho competenza. Solo una considerazione personale: il bambino deve correre, giocare, sbucciarsi le ginocchia, sudare, vivere la propria selvatichezza. In certi ambienti sembra che si voglia sostituire tutto questo con la “medicina” miracolosa della meditazione. Viviamo in un‘epoca malata anche in questo senso.

 

D: Spesso, tra i tanti luoghi comuni in merito alla Meditazione vi è il fatto che si debba andare in chissà quale luogo e compiere chissà cosa per praticarla. In realtà tutto questo avrebbe poco senso se non ci fosse una applicazione di questa che di fatto è una dimensione interiore nella vita quotidiana, a casa così come al lavoro. Ci puoi offrire qualche indicazione concreta e operativa per applicare la Meditazione nella vita quotidiana?

R: Il grande lavoro sul sentire. Non è un andare in qualche posto particolare. È una realtà in cui sono immerso, che mi investe, mi entra ovunque, vi sono dentro. È veramente uno spazio di resa, nulla che abbia a che fare con un’attività. Allora il respiro non è dentro di me, ma sono io che sono nel respirare – che diventa pura passività, sia nell’inspiro che nell’espiro. Come il vedere, che non è più un buttare fuori di me in modo rapace il mio sguardo, ma è un essere visto da ciò che ho davanti. Così anche l’ascoltare, ecc. Nella filosofia indiana si dice una cosa apparentemente banale: i jñānendriya, cioè i cinque sensi, sono puramente passivi. Lavorare su questa cosa: accorgermi quanto invece siano nel prendere, nel fare, nell’accaparrarsi. Alla lunga qualcosa si apre, qualcosa accade.

 

D: Per concludere: che messaggio vorresti offrire per congedarti dai nostri lettori ora?

R: La pratica inizia con il mio resistere alla pratica. E questa resistenza dura generalmente diversi anni. Il resto è sognare. Ma ci piace tantissimo sognare.

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