Cosa nasconde l’amore-odio per la negatività
di Anna Fata
Chi scrive, è un giornalista, un blog, o un editore sa per esperienza che le cattive notizie, le tragedie, le stragi, gli incidenti, la cronaca nera non solo fanno notizia, ma attraggono ampiamente l’attenzione e la lettura del pubblico.
Ciò che ci spaventa, ci inquieta, ci rammarica, ci scuote, ci suscita forti emozioni e magari anche pensieri di repulsione, disgusto, shock, induce in noi un senso di ambivalenza molto forte: da un lato ne siamo attratti, dall’altra l’istinto sarebbe la fuga.
E’ anche un po’ quello che accade quando di persona transitiamo davanti al luogo di un incidente appena verificatosi, in cui ancora ci sono le persone coinvolte, le forze dell’ordine e tutti coloro che stanno prestando soccorso. Da un lato vogliamo vedere, udire, sapere, dall’altro vorremmo voltarci dall’altra parte e fingere che non sia accaduto nulla.
Per certi versi è anche in parte un fattore che sta alla base del grande successo di serie televisive, programmi, telefilm, film, che si inseriscono nel genere horror, thriller, reportage di guerre, stragi, delitti.
Perché le cattive notizie e tutto ciò che ha a che fare con la negatività, il male, la cattiveria, le tragedie ci attirano in modo così magnetico e pervasivo?
La negatività nella vita quotidiana
Non si può negare che nella vita di ogni giorno, così come accadono fatti e situazioni positive, costruttive, liete, gioiose, se ne possono anche verificare di negativi. E’ nell’ordine delle cose: come per una medaglia, come esiste una faccia, esiste anche quella opposta. Fa parte della sua stessa essenza.
Lo stesso animo umano consta di istanze antitetiche e spesso assai contraddittorie, più o meno consce. Nessuno di noi è escluso da questa questa compresenza: può non esserne del tutto consapevole, oppure può decidere deliberatamente di non coltivare un fronte oppure l’altro, ma in potenza tutto questo è presente in ciascuno di noi.
Ciò che sancisce la differenza sono la consapevolezza e l’intenzione di alimentare un fronte oppure l’altro. Al potere individuale, inoltre, occorre però anche aggiungere il caso, il fato, gli eventi fortuiti che semplicemente possono accadere e in cui ci troviamo talvolta, volenti o nolenti, coinvolti.
La negatività lascia un segno
Ciò che ci scuote fortemente soprattutto sul fronte emotivo è destinato a lasciare inesorabilmente un segno, ancora più se ha a che fare con la negatività. Rick Hanson è convinto che quest’ultima ha la capacità di imprimersi molto più profondamente e prolungatamente nella mente rispetto a ciò che è positivo che, invece, tende a scivolare via più velocemente.
Secondo lo psicologo questo è dovuto a fattori evolutivi: i nostri predecessori per poter sopravvivere e adattarsi all’ambiente dovevano essere sempre all’erta rispetto alle possibile minacce alla loro sopravvivenza e a ogni possibile minaccia.
Anche se oggi l’ambiente attuale non è così minaccioso come in passato, in ogni caso la fragilità della vita umana resta comunque la medesima. Nonostante oggi viviamo nel pieno di un veloce e vorticoso progresso su numerosi fronti, sociale, culturale, economico, tecnologico, medico, scientifico, l’evoluzione sul piano interiore di ciascun essere umano procede in modo più lento e conserva in sé retaggi ancestrali e istintuali molto antichi. L’istinto alla sopravvivenza è uno di questi.
I nostri neuroni, quindi, per certi versi è come se fossero programmati per cogliere il negativo, le minacce, i pericoli, le tragedie, mentre per rilevare la positività deve compiere uno sforzo e allenarsi per imparare a farlo attivamente.
In pratica è come se ci fosse un parziale scollamento tra l’attenzione a lungo termine e quella a breve: la prima è distorta principalmente verso il positivo, la seconda verso il negativo. Per verificare questa propensione Hanson suggerisce di scrivere velocemente due liste, una di cinque cibi, una di cinque nomi di persona. Nella gran parte dei casi quello che ci suggerisce la mente si riferisce a nomi che ci piacciono. Pare che questo tipo di ricordo sia dovuto al cosiddetto “Effetto Polyanna” che ci induce a ricordare più accuratamente ciò che ci piace, spingendoci a considerare, anche quando parliamo, su quello che maggiormente c’è di positivo.
Perché siamo positivi oggi, ieri (forse) un po’ meno
Molte ricerche, soprattutto nell’ambito della Psicologia Positiva, hanno sottolineato l’esistenza di una distorsione mentale verso il pensiero positivo: ad esempio, le persone, quando interrogate al proposito, tendono a considerarsi più felici che non, riferiscono più eventi positivi nella loro vita che non negativi, in parte perché li ricerchiamo, mentre tentiamo di evitare quelli negativi, in parte poiché ciò che è negativo tende a sbiadire nel tempo, in parte, infine, la maggior parte di noi ha più aspettative positive sul futuro che non negative.
In pratica: nella vita ci si avventura complessivamente con uno spirito positivo e si è inclini a considerare se stessi in modo migliore rispetto a quello che si è. Lo stesso linguaggio con cui ci esprimiamo tradisce questo nostro modo di pensare e di concepire l’esistenza.
In aggiunta la scienza ha anche validato l’esistenza di una convinzione secondo la quale i successi si attribuiscono più a se stessi, grazie a fattori interni, stabili, globali, mentre questo accade meno quando si ha a che fare con gli insuccessi. Ad esempio, se si prende un bel voto a scuola, se si viene premiati al lavoro lo si tende ad attribuire alle proprie abilità, all’impegno, e si crede che si potrà fare altrettanto in futuro.
Se, invece, si riceve una cattiva valutazione a scuola o al lavoro si è più propensi a credere che ciò sia stato causato da fattori esterni, ad esempio il compito particolarmente arduo, l’insegnante di cattivo umore, transitori, ad esempio il rumore dei lavori in corso in strada che ci hanno disturbati, o interni instabili, non duraturi, ad esempio un improvviso mal di testa, e che si potrà fare meglio in seguito.
Con questo modo di interpretare le situazioni il proprio valore di se stessi, l’autostima, la fiducia in sé vengono preservati.
La complementarietà di positivo e negativo
Positività e negatività, nel complesso, però, si possono considerare in parte complementari e con funzioni che alla fine si completano a vicenda. Nei fatti è come se la distorsione mentale verso la negatività ci facesse vivere in difesa, proteggendoci, mentre quella verso la positività ci permetterebbe di vivere in attacco, permettendoci di scoprire nuovi orizzonti, di espandere le conoscenze e le esperienze. Il connubio di tali aspetti si definisce “Effetto Pigmalione” (o “Effetto Rosenthal”), secondo il quale le profezie a cui crediamo è altamente probabile che si realizzino, anche col contributo di fattori più o meno inconsci.
In tutte le cose, però, è sempre fondamentale l’equilibrio, che ha come presupposto di base la consapevolezza. Se si eccede con la positività il rischio è quello della delusione, del fallimento, delle aspettative eccessive e irrealizzate. Se, invece, si esagera con la negatività si rischia la paralisi tra incertezze, paure, rischi, e inevitabili fallimenti quando si compie il primo, incerto passo.
Si tratta in ogni caso di essere sufficientemente lucidi e obietti nel ponderare rischi e opportunità, risorse e limiti, pro e contro e decidere e agire coerentemente in base ad essi. Ignorare o sottostimare uno di questi poli può esporci a fallimenti, delusioni, minacce, perdite di cui in seguito potremmo pentirci.