E’ più dura sopravvivere alla paura che al rischio fisico. Forse.
Di Anna Fata
Chi più, chi meno, ci siamo tutti dentro. Nello spettro della paura. Si respira, si taglia a fette, ce la propinano ad ogni ora del giorno, in tutte le salse, su tutti gli schermi. Impossibile non sentirla. Sulla pelle, nelle narici, nella bocca, nelle orecchie, di fronte agli occhi.
Ciascuno si difende come può, consciamente o inconsciamente. Ci dividiamo, anche su questo, in opposte, a volte belligeranti fazioni: tra il partito del chi “ma è solo una banale influenza”, e il chi “è una grave forma di broncopolmonite”, tra il chi “è il frutto di un complotto a tavolino” e il chi “in realtà le epidemie e pandemie sono sempre esistite”.
Insomma, comunque la si metta, c’è sempre qualcosa che crea divisioni e fazioni tra di noi. Oggi è Covid-19 che ci rende nemici potenziali gli uni rispetto agli altri, ieri c’era altro, domani ci sarà altro ancora.
Il nemico sembra sempre fuori, intorno, da qualche parte, magari più vicino ormai di quanto si possa credere. Forse si annida persino nell’appartamento del vicino di casa, di cui, complice l’isolamento domestico a cui molti sono costretti, arriviamo a percepire persino il respiro troppo pesante, di giorno e di notte.
La pestilenza contemporanea, a chi la tocca, la tocca
In tutto questo marasma ciascuno si difende come può: la lotta per la sopravvivenza si concretizza in carrelli riempiti all’inverosimile al supermercato, in scorte dal sapore apocalittico di generi alimentari e non di ogni tipo, alcuni indubitabilmente utili, altri che probabilmente finiranno nel dimenticatoio e magari anche nella spazzatura, frutto del terrore, della fretta e dell’irragionevolezza.
Ci sono tante persone, di cui fino a ieri magari ignoravamo l’esistenza e la storia, che si trovano improvvisamente più esposte di altre in questo accadimento. Sono le cosiddette persone “a rischio”.
Quelle che forse troppo banalmente vengono ridotte a meri numeri statistici, quelle che “tanto erano anziani e/o con altre patologie croniche o acute già in corso”.
Quelle della cui esistenza arriviamo a consolarci per proteggerci dal nostro terrore, più o meno consapevole che, in questo caso, al pari della peste manzoniana “a chi la tocca, la tocca”. Come disse recentemente uno scienziato: nessuno può considerarsi immune. E non solo: nessuno può sapere se né quale decorso avrà questo invisibile morbo su di noi personalmente, se non quando si manifesta con i suoi sintomi concreti, sul suo corpo. Spesso facendosi beffa della nostra età o anche della nostra sana e robusta costituzione.
Covid-19: Come vive una persona a “rischio”
Ciascuno fa quello che può e come può per sopravvivere al meglio in questa condizione. Da chi non ci pensa, conduce la sua vita di sempre, tra amici, bar, ristoranti, lavoro frenetico, e magari anche qualche bella vacanza al mare o ai monti, in barba alle infinite raccomandazioni e prescrizioni, trovando mille scuse e cavilli per non adire, a chi si chiude in casa tra provviste di cibo e farmaci, lavoro al computer, cura dei figli e dei familiari, e aggiornamenti continui dello status quo tramite i media.
E poi ci sono le famose “persone a rischio”, i fragili della società che sempre ci sono stati e, chissà, forse sempre ci staranno, e coloro che all’opposto, tali non sono che, con buona pace della loro coscienza, magari pensano o si augurano che con questa piaga i precedenti verranno ampiamente ridimensionati, questi che a tutti gli effetti, forse fin troppo cinicamente, vengono considerati pesi inutili, scomodi, fastidiosi ed economicamente anche svantaggiosi per la società.
Come vive tutto questo una persona fragile, nel corpo e/o nella mente?
Dipende. Anche in questo caso ciascuno reagisce come può. Le situazioni sono pressoché infinite e al limite dell’inimmaginabile, se non ne conosciamo minimamente la storia. E qui i numeri e le statistiche non c’entrano nulla, non ci sanno dare quelle spiegazioni che solo l’umanità, l’ascolto e l’empatia possono aiutarci a comprendere.
Ci sono le famiglie di persone anziane con un figlio disabile che si interrogano su quello che potrebbe accadere se si ammalassero loro e non solo l’amato figlio. Ci sono coloro che lavorano e che magari a più o meno chilometri di distanza hanno delle persone care con problemi di salute e si domandano se e come potranno intervenire. Ci sono le persone che vivono sole e non possono contare su nessuno per quel minimo di autonomia quotidiana che la loro condizione già impone e con una ulteriore malattia verrebbe ulteriormente compromessa. C’è chi, oltre ai problemi di salute, deve fare i conti con i soldi che mancano e amplificano tutta la natura del problema e per cui anche una mascherina che aumenta a dismisura di prezzo può rappresentare un costo non più affrontabile.
Nel bisogno emerge l’umanità
Nel bisogno emerge, prima o poi, l’umanità di ciascuno di noi, pena il soccombere o annientare il nostro prossimo. Di fronte alla necessità o ci si piega all’aiuto dell’altro, chiunque esso sia, o si arriva finanche a distruggere chi ci tende la mano.
Quando si sa che, per i propri limiti di salute, ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, ci si comincia a interrogare su tante cose. Se si riesce a venire a patti col proprio terrore, se si è in grado di andare oltre esso, se si è capace di ascoltare un po’ oltre la superficie e empatizzare, ci si accorge che, più o meno, siamo tutti nella stessa barca, che tutti vogliamo essere in salute, felici e sereni.
Ogni giorno si cerca di impiegarlo al meglio, ci si chiede cosa si potrebbe fare, nel proprio piccolo, di buono, utile, costruttivo. Si tenta di non farsi prendere dall’ansia del fare tutto o troppo, riconoscendo e rispettando i propri limiti, sapendo che si fa quello che si può.
Ogni giorno si sa che è un giorno in più, di cui essere grati, da celebrare, forse anche perché si sa che potrebbe essere l’ultimo. Si cerca di evitare l’ansia e la bramosia di volersene accaparrare a tutti i costi uno in aggiunta, si sa che tutti abbiamo lo stesso desiderio e diritto a goderne, ma nessuno è più uguale di un altro, tale da essere più autorizzato di altri a trovarsi in queste condizioni.
Non ci si chiede più il perché dei propri malanni che ci rendono e forse ci hanno sempre reso un po’ più fragili di altri, e magari anche un passo indietro nella vita, negli affetti, nel lavoro, semplicemente si prende atto che si ha imparato, grosso modo, ad accettarli e che la propria esistenza è andata così.
Non ci si consola osservando situazioni “peggiori” – ammesso che siano possibili confronti su tale piano – ci limita ad essere grati perché, tutto sommato, a noi è andata ancora bene.
E magari si riesce, in queste condizioni, ad essere generosi, solidali e comprensivi pure col proprio prossimo, che probabilmente non comprende la nostra condizione, la svaluta, la deride o afferma che tutto quello che ci accade è frutto della nostra buona o cattiva volontà.
Se così fosse, perché tante persone nascono con patologie, o predisposizioni ad esse che non hanno mai fatto nulla per cercare né perseguire?
Covid-19 oggi: La testimonianza
Laura, la chiameremo così, per il suo desiderio di privacy, è una donna molto riservata, ma affabile, che conosco ormai dai tempo. Si è svelata progressivamente a me, con la sua consueta delicatezza e dignità. Non ha mai invocato pietismo, né assistenzialismo, semplicemente ascolto, comprensione, rispetto, a prescindere dal proprio punto di vista, che può essere diverso a seconda del modo di interpretare la realtà e come tale degno di esistere e di manifestarsi.
“Ho iniziato ad avere i primi segni della mia “fragilità” – termine che, di fatto, non ho mai adottato, perché in fondo non ho mai avvertito come mio – fin da piccola. Avevo 8 anni quando ho iniziato a stare male, con diversi sintomi e modalità. Ero un vero rompicapo per i numerosissimi medici e centri d’eccellenza che ho frequentato. Ai tempi gli studi e le ricerche scientifiche non erano così avanzate come oggi.
Sapere di cosa soffri, anche se magari non si dispone di una cura definitiva, ma solo di più un meno blandi palliativi che in qualche modo leniscono i disagi e in parte ne rallentano l’inevitabile progresso, è già un grande conforto. Non perché si tratti di sentirti etichettati come appartenenti ad una categoria o l’altra, ma semplicemente perché puoi nutrire la vaga sensazione di sapere in che direzione sei incamminato”.
Come vivi oggi, dopo oltre 40 anni di convivenza con i tuoi sintomi?
“Se ti avessi risposto alcune settimane fa, prima dell’avvento massiccio e pervasivo di Covid 19 nelle nostre vite, ti avrei detto tranquillamente che ho imparato a conviverci, a tratti persino a dimenticarmene.
Ormai i sintomi fanno parte del mio ménage quotidiano, ho imparato a prendermene cura, a farne tesoro, anche se certamente quando si riacutizzano, a volte mi pesano perché comunque rappresentano un grosso ostacolo per la mia quotidianità, personale e professionale. Mi usurano, sia sul piano fisico, sia psichico. Mantenere un equilibrio – lo ammetto – non è sempre facile. E si sa che poi, se non si è sereni, anche il fisico, in un circolo vizioso, a sua volta soffre di più.
Non mi chiedo più, come a tratti facevo, da piccola, perché proprio a me. Allora non avevo gli strumenti per comprendere e chi mi stava attorno, genitori, insegnanti, medici, a loro volta sembravano altrettanto impreparati a farlo. Oggi, semplicemente, accetto e faccio tesoro. Anzi, spesso rifletto proprio su quello che ho compreso grazie ai sintomi e che magari, se non ci fossero stati, non mi sarebbe stato possibile.
Rispondendoti oggi, invece – devo essere sincera – ho attraversato diverse fasi, assai repentinamente. Il turbinio mentale ed emotivo è stato notevole. Ribellione, rabbia, paura, terrore, ansia, fuga, isolamento sociale, emotivo, paralisi interiore, crollo emotivo. Ho vissuto un po’ di tutto.
Ora comincio un po’ a calmarmi. Mi rendo conto che, al pari di ogni essere umano, dispongo di un potere di azione che si estende fino ad un certo punto. Faccio quello che posso per proteggermi dai rischi che questo potenziale malanno potrebbe avere su di me. Molte cautele che adottavo in passato e che facevano parte integrante in modo abituale delle mie giornate sono aumentate. Del resto, le difese immunitarie, tra le altre cose, sono veramente basse. Alcune abitudini sono cambiate, alcune attività sono state ridotte o eliminate.
D’altra parte, al tempo stesso questa esperienza mi sta tornando a fare comprendere che non tutto è nelle nostre mani e nel nostro potere. Non possiamo controllare tutto. E mi verrebbe da dire: per fortuna!
Io faccio quello che posso, per me e per rispetto anche di altre persone. Poi per il resto posso provare ad avere fiducia. Nel prossimo, nelle Istituzioni, che però, a loro volta possono essere fallibili, pur facendo del loro meglio, ma soprattutto nella Vita, nel Mondo, in Dio, chiamalo come vuoi. Alla fine credo che la sfida più grande che la maggior parte di noi si trovi a vivere è proprio quella di imparare a convivere con una esistenza che è destinata a seguire il suo corso, nonostante le nostre azioni e buone intenzioni.
Forse è anche per questo che, ad un certo punto, ho smesso di chiedermi: “Perché proprio a me” e ho cercato di accettare che, evidentemente, anche se magari non comprendo fino in fondo, a me è andata così”.
Cosa ti sentiresti di augurare ad altre persone “fragili” e alle persone in generale oggi?
“Di fare tesoro di questi momenti di vita. Di non prendere queste giornate come un peso, una imposizione che cade dall’alto.
Io lo capisco perfettamente che stiamo tutti rinunciando a qualcosa, so bene che ci sono anche implicazioni economiche che mettono a serio rischio le nostre attività professionali e con essa la nostra stessa sopravvivenza – ricordo che io sono la prima ad avere delle collaborazioni con partita iva … – oltre che umane, affettive, ludiche.
So anche, per esperienza, che se accade qualcosa che non potevamo prevedere e che non ci siamo attivamente né intenzionalmente andati a cercare, è necessario comprendere il senso. Poi, se è possibile, si agisce concretamente per modificare la situazione. Se non sussiste tale possibilità, non resta che accettare, che di fatto non è un essere passivi, ma molto, molto attivi sul piano interiore però.
Io per arrivare ad un minimo di accettazione della mia condizione ci ho messo anni e non nego di avere avuto bisogno dell’aiuto di un professionista per farlo.
“C’è sempre qualcosa di “buono” e utile nelle situazioni. Tutto sta a trovarlo e può essere diverso per ciascuno di noi, a seconda delle situazioni e dei momenti di vita”.
Le paure sono la vera condizione di “rischio”
Paradossalmente chi vive in condizioni di fragilità fisica e/o psichica si rende conto per primo di quanto la dimensione mentale ed emotiva possa incidere e riflettersi anche su quella fisica. Non che semplicemente “pensare positivo”, essere ottimisti o altro possa risolvere veri e comprovati malanni fisici, ma sicuramente il loro modo di viverli, interpretarli, percepirli.
Diverse ricerche scientifiche hanno indicato che essere depressi o in ansia non solo abbassa le difese immunitarie, ma genera anche una maggiore percezione del dolore.
Ecco, quindi, che, a mio avviso, c’è tanto da imparare dalle cosiddette persone “fragili”. Perché in fondo, a ben vedere, tutti da qualche parte abbiamo la nostra fragilità, fisica e psichica, ma ci spaventa, non la vogliamo vedere né sentire. Ci affonderebbe l’ego e la pretesa di onnipotenza e invulnerabilità, miti che vanno tanto di moda oggi e abbondantemente vengono cavalcati su ogni fronte, sociale e individuale.
Le vere paure che fregano, ci mettono a rischio sono quelle che ci allontanano gli uni dagli altri, che creano dissapori, lotte, opposizioni, conflitti. Sono quelle alimentate dal timore del diverso, dell’ignoto, dell’incomprensibile.
Tutelare le persone “fragili” oggi più che mai ritengo sia una forma di protezione della fragilità che è dentro ciascuno di noi. I cosiddetti “fragili” incarnano simbolicamente quella parte di noi che abbiamo rigettato, rifiutato, silenziato e che oggi grida a gran voce un po’ di rispetto.
E il rispetto si alimenta a partire dal ritiro, dal silenzio, dall’ascolto, dal buon senso e dall’etica. Proprio quello che ci viene richiesto dalle istituzioni chiudendoci in casa, non scappando a destra e a manca, come se la cosa non ci riguardasse, per tutelare proprio il prossimo, che poi siamo anche noi stessi.
Perché a chi la tocca, la tocca. Se ci toccherà in modo più pesante di quanto ora possiamo immaginare, magari i fragili diventeremo anche noi. E probabilmente ci pentiremo di non avere manifestato rispetto del nostro prossimo e di noi stessi quando ci era stato chiesto e avremmo, volendo, potuto farlo.