La scuola e le istituzioni educative

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Intervista a Anna Oliverio Ferraris
di Anna Fata

Secondo una indagine della Organizzazione “Save the Children” l’Italia è uno tra i Pesi europei con il maggiore tasso di dispersione scolastica durante l’iter obbligatorio, con una prevalenza delle regioni meridionali rispetto a quelle centro settentrionali.

Tra gli obiettivi principali di Europa 2020 rientra anche la riduzione dell’indice di dispersione scolastica a non oltre il 10%, ma questo implicherebbe investimenti economici in infrastrutture materiali e immateriali che contrasterebbero con i vincoli imposti dal trattato di Maastricht e il Fiscal Compact.

In Italia sono soprattutto i ragazzi (16%) ancora più delle ragazze (11%) tra i 18 e i 24 anni a interrompere gli studi. Senza dubbio le ristrettezze economiche delle famiglie che faticano a mantenere i figli negli studi influiscono ampiamente su tali scelte, ma forse non sono le uniche a fare propendere per tale via.

La scuola oggi, e le istituzioni educative in generale, forse hanno perso l’aurea di stima, prestigio, rispetto, fascinazione, appetibilità di cui godevano alcuni decenni fa. Un tempo la figura dell’insegnante, di per se stessa, vantava un’ampia quota di reputazione, rispetto e stima che sembra che oggi sia in parte andata smarrita.

 

Il ruolo della scuola oggi

Il ruolo non solo meramente didattico, ma anche educativo, sociale, psicologico, formativo, etico che l’insegnante ricopre è di grande delicatezza, attualità e necessità, oggi più che mai. Ogni epoca complessa ha bisogno di chiavi di osservazione, lettura, analisi, comprensione altrettanto complesse e gli insegnanti e le strutture educative sono chiamati ad assumersi la loro quota di responsabilità, coordinandosi, e non contrapponendosi né ponendosi come alternativa, con le altre istanze formative, da quelle familiari in poi.

“Fermiamoci un attimo per esprimere la nostra sincera partecipazione all’analista che,
per esercitare la propria attività, deve soddisfare richieste così gravose.
Si ha quasi l’impressione che analizzare sia la terza delle “professioni impossibili” che,
se ne può star certi fin dall’inizio, avranno un esito insoddisfacente.
Le altre due, note da tempo, sono educare e governare.”

(tratto da “Analisi finita e infinita”, di S. Freud, traduzione originale a cura di Davide Radice, per gentile concessione)

Trasmettere competenze culturali, nozionistiche, svolgere una funzione didattica oggi più che mai non è più sufficiente. In un’epoca di grande confusione, di smarrimento di quelli che in passato venivano considerati valori e con l’assunzione di altri che, forse, non sono in grado di dare le risposte che i giovani cercano, le strutture educative e chi vi opera può contribuire anche a proporre nuovi contributi di senso e di significato per la vita.

 

Il valore della relazione a scuola e nell’educazione 

Per compiere questo risulta centrale il peso della relazione. La relazione si può coltivare nella sua essenza più intima, autentica, profonda, solo di persona. Oggi la crescente disintermediazione del sapere, delle conoscenze, degli strumenti didattici e delle relazioni stesse, la frapposizione crescente di strumenti tecnologici, di schermi, lancia una grande sfida alle relazioni tradizionali.

Le conoscenze, le esperienze, non si possono vivere solo tramite l’ausilio del cervello e della mente – che sono comunque strutture a base corporea – non hanno solo un corrispettivo intellettuale, cognitivo, ma anche e soprattutto emotivo e sensoriale.

Un sapere che non emoziona, che non scuote, che non genera passione finisce col diventare puro nozionismo che viene dimenticato dopo pochi giorni dal termine di una verifica o di una interrogazione. Non solo: un sapere che non entra nella carne, che non smuove emotivamente difficilmente può diventare qualcosa capace di interrogare nel profondo, animare le coscienze, dare un senso alle cose e magari riorientare le esistenze.

 

Le caratteristiche del bravo maestro

In questo processo il ruolo dell’insegnante risulta basilare. Uno psicoanalista allievo di Lacan, Moustapha Safouan, sostiene che il bravo maestro è colui che, inciampando mentre entra in classe, non finge che non sia accaduto alcunché, non punisce chi lo osserva ridendo, ma è colui che fa dell’inciampo l’argomento della lezione del giorno. La lezione, in questo senso, rappresenta un rischio e il bravo maestro non teme di cadere.

Ogni insegnante poi ha un suo stile che si apprende non solo con l’osservazione, l’ammirazione, l’identificazione, ma anche e soprattutto trascendendo tutto questo, andando oltre i modelli e coloro che sono stati a propria volta i propri mentori.

Il bravo maestro non si sforza di mostrarsi a tutti costi come colui che sa, come il detentore della verità assoluta, impeccabile ed inesauribile, almeno nel suo campo. Poiché l’insegnamento si basa prima di tutto sulla relazione, e quindi sullo scambio, il bravo insegnante si sa mettere da parte. Non solo non considera l’allievo come una tabula rasa su cui inscrivere delle nozioni, ma è consapevole che da una lezione tutti i presenti, a cominciare dall’insegnante stesso, ne usciranno cambiati.

Insegnare non è quindi riempire, ma al contrario rappresenta uno svuotare, rappresenta il suscitare uno spazio vuoto, animato dal desiderio di conoscere, di sapere, di approfondire da parte di chi si ha di fronte.

Il vero maestro è il primo a riconoscere di sapere di non sapere. Questo sapere di non sapere è proprio ciò che rende possibile il sapere. C’è sempre, e forse ci sarà sempre, una quota che sfugge alla conoscenza, che è poi lo stesso spazio che anima e rende possibili le relazioni umane.

 

La relazione tra maestro e allievi 

Ecco perché il maestro dovrebbe non cedere alle lusinghe di farsi imitare dai propri allievi, ma dovrebbe stimolare in loro il desiderio di andare per la propria strada. Esattamente al pari dei genitori, dovrebbe lasciarli liberi e saperli perdere.

Dal canto loro, gli allievi dovrebbero saper riconoscere il debito – al pari dell’insegnante stesso verso i suoi mentori – nei confronti dei propri maestri, sentendo che il sapere che ereditano è qualcosa di vivo di cui loro stessi sono incarnazione in modo del tutto unico e soggettivo.

Purtroppo negli anni le istituzioni educative a anche molti insegnanti non sono stati in grado di stimolare, prima ancora dell’apprendimento nozionistico, l’amore per il sapere. Le diverse discipline, la pedagogia, i vari orientamenti della psicologia, le neuroscienze si sono avvicinate al processo formativo e ai suoi protagonisti in modo diagnostico, normativo e prescrittivo. Esse hanno cercato, a più riprese, di delineare un modello ottimale di scuola e hanno fatto in modo che ovunque e chiunque vi si uniformasse, non sempre con risultati ottimali.

In questa cornice gli stessi disturbi dell’apprendimento hanno subito una forte medicalizzazione, hanno considerato la persona che ne è affetta come “difettosa”, da riparare con un farmaco o altri strumenti di breve termine, che raramente indagano la relazione con l’Altro, in particolare la scuola e la famiglia.

La psicoanalisi, invece, più che offrire soluzioni preconfezionate, si pone nell’ottica dell’osservazione, dell’ascolto, del non giudizio, dell’assenza di stereotipi. Essa può arrivare a considerare la scuola come una sorta di sintomo al pari di tanti altri la cui comprensione richiede uno sguardo ampio sull’intero contesto affettivo e relazionale in cui la persona è inserita e non solo quello scolastico.

 

Intervista a Anna Oliverio Ferraris 

Ne parliamo con Anna Oliverio Ferraris, Psicologa, Psicoterapeuta, Saggista, Professore ordinario di Psicologia dello sviluppo presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Direttrice della rivista “Psicologia Contemporanea”.

 

D: Quali sono le differenze, se esistono, tra educare ed insegnare?

R: Insegnare viene generalmente inteso come trasmissione del sapere da chi possiede delle conoscenze a chi non le possiede ancora.

Educare implica una presa in carico del discente nella sua totalità, come persona, non soltanto per quanto riguarda la trasmissione del sapere.

Alcuni insegnanti sostengono che il loro compito a scuola è quello di insegnare, mentre educare è compito della famiglia. Ovviamente educare è compito della famiglia, ciò non toglie che anche gli insegnanti possono svolgere questo ruolo.

In realtà, lo vogliano o no, per il fatto di essere presenti in classe giorno dopo giorno, al centro dell’attenzione degli alunni, finiscono per svolgere, nel bene o nel male, anche il ruolo di educatori. Per tempi più o meno lunghi, spesso vari anni, sono figure centrali nella vita dei loro alunni. I ragazzi li osservano, valutano le loro parole e i loro comportamenti. Possono prenderli a modello e, qualche volta, sviluppare un vero e proprio attaccamento nei loro confronti.

Un’insegnante quindi non si limita soltanto a trasmettere il sapere ma, ma esplicitamente o implicitamente trasmette anche i suoi valori, la propria visione del mondo.

 

D: Quali sono le difficoltà principali oggi dell’educare e dell’insegnare?

R: Oggi gli insegnanti devono competere con le tecnologie della comunicazione, da cui ragazzi si sentono attratti e da cui ricevono una grande quantità di informazioni senza fare alcuna fatica. Uno dei problemi oggi per insegnanti ed educatori è mettere ordine in quest’ambito insegnando ai propri alunni a gestire le tecnologie invece di lasciarsi trascinare passivamente.

Un altro aspetto per gli insegnanti è possedere delle strategie didattiche in grado di coinvolgere i ragazzi. Non è sufficiente conoscere bene la propria materia, bisogna anche sapere come insegnarla.

Il clima emotivo che si crea in classe è un altro aspetto importante: bambini e ragazzi vogliono sentirsi riconosciuti e seguiti dall’insegnante. Vogliono anche sentirsi bene in classe con i compagni, va quindi favorita la collaborazione e i lavori di gruppo. Il che non esclude la competizione che però non deve essere tale da risultare schiacciante per alcuni.

Fondamentale è l’insegnamento individualizzato, dove ognuno oltre a seguire il programma comune ha modo di seguire i propri ritmi individuali di apprendimento. Non bisogna infine dimenticare che l’apprendimento migliore è quello attivo, partecipativo e che la lezione ex cattedra va bene in alcuni momenti ma non bisogna abusarne.

 

D: Cosa si cela dietro le sempre più frequenti manifestazioni di mancanza di rispetto, e spesso anche di aggressività, fisica e verbale da parte di allievi e genitori nei confronti degli insegnanti?

R: Scarsa considerazione per la cultura in una fascia piuttosto ampia del Paese, dovuta a vari fattori. Uno è che il diploma non è più garanzia di lavoro come un tempo, o per lo meno di un lavoro all’altezza delle aspettative.

Un altro è quell’insieme di programmi trash che, guardati fin dai primi anni di vita in modo pigro e passivo, creano un contesto demotivante nei confronti dello studio e dell’impegno. Leggere e scrivere è faticoso. Pensare e approfondire richiede tranquillità e concentrazione.

Un terzo fattore è la scarsa considerazione in cui vengono tenuti oggi professori e insegnanti non di rado definiti “morti di fame”. C’è poi la convinzione, in molti ragazzi, che la cultura proposta a scuola sia superata, per questo gli insegnanti dovrebbero curare molto la didattica.

Infine, l’individualismo tipico della nostra società, porta molti genitori a ritenere che essi sono gli unici educatori dei loro figli il che li rende intolleranti nei confronti degli interventi di maestri e professori.

 

D: Oggi sembra che i giovani manifestino una rinnovata necessità di regole, limiti, confini e che provochino gli adulti, insegnanti compresi, affinché li pongano e siano in grado di farli rispettare, con fermezza, ma anche etica e coerenza. Se e come si può proporre in modo corretto un contenuto normativo ai giovani all’interno di un processo educativo e formativo?

R: Le regole indicano la strada e proteggono. La libertà illimitata è angosciante. Si comprende che molti giovani ne sentano la necessità in una età in cui da soli è difficile orientarsi. Non è difficile proporre delle norme ai giovani se gli adulti le condividono.

La scuola per esempio deve illustrare alle famiglie, all’inizio di ogni anno, il proprio programma educativo – oltre a quello di studio e didattico – spiegando l’importanza delle regole per la convivenza civile e aggiungendo che le regole di una comunità non possono coincidere totalmente con quelle della famiglia.

 

D: Se e come può influire la disponibilità pressoché ubiquitaria, semi democratica, senza limiti di tempo e in alcuni casi senza censure, di nozioni e conoscenze dentro e fuori dal Web e dai Social – che può contribuire ad alimentare, tra le altre cose, anche l’illusione di poter sapere di tutto e di più, in modo disintermediato da figure terze come i docenti – sull’insegnamento e la figura stessa dell’insegnante?

R: Può creare una grande confusione e perdita di tempo. A volte una vera e propria dipendenza come da una droga. Per questo se si consente ai propri figli di accedere alle tecnologie bisogna insegnare loro a gestirle e poi controllare che non vi si perdano. L’età è importante e certamente nell’infanzia non è necessario che le usino in maniera libera e indiscriminata: per crescere sereni ed equilibrati devono fare molte esperienze di altro genere.

 

D: Se e come si possono risvegliare l’amore e la passione per il sapere e la conoscenza, più come processi in sé e per sé, prima ancora che per i contenuti e per i loro intermediari?

R: Dipende dalla capacità relazionale dell’insegnante/educatore (l’empatia è fondamentale) e anche dal suo entusiasmo e dalla sua partecipazione nel trasmettere il sapere.

 

D: Che ruolo può avere la relazione tra alunni e insegnanti e tra pari nell’insegnamento e nell’apprendimento?

R: Il clima che si crea in classe è una dimensione fondamentale sia per l’apprendimento, sia nel rapporto “verticale” alunni insegnanti e nei rapporti “orizzontali” tra compagni. La classe deve essere un “luogo” significativo in cui ci si sente bene, si incontrano i propri compagni, si fanno dei lavori interessanti a volte individuali e a volte in gruppo, si accetta l’impegno e la fatica perché se ne coglie il significato.

Se la classe è un “non luogo” il tempo che vi si passa è noioso, non motivante, a volte ostile: il desiderio è allora quello di andarsene il più in fretta possibile.

 

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