Siamo sicuri di voler essere felici?

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Ben-essere, felicità, disagio psichico: cosa vogliamo veramente
di Anna Fata

Da millenni si discute su cosa sia la felicità e come fare per conseguirla, riconoscerla, mantenerla.

Per certi versi essa viene considerata una chimera, che i più conoscono per sentito dire, inseguono, sentono sempre dietro l’angolo, o si accorgono del suo passaggio quando ormai è transitata ed è divenuta parte del regno dei ricordi.

Siamo veramente sicuri di desiderare la felicità, intesa come stato d’animo raggiante e solare, di essere predisposti a riconoscerla, e soprattutto ci sentiamo pronti e degni di accettarla?

E, ancora, siamo proprio sicuri che sia la condizione ultima, fisiologica di ciascun essere umano?

O non è forse riduttivo ridimensionare l’ampio spettro di manifestazioni emotivo-affettive umane ad un’unica condizione?

 

Una definizione possibile di felicità

Forse è anche per questo che nell’antichità, più propriamente rispetto ad oggi, si equiparava il termine felicità a quello più vasto di ben-essere, inteso come perfetto accordo di mente, corpo, spirito.

Il crescente uso – e spesso abuso – oltreoceano, così come di recente anche in Italia, di antidepressivi non sembra essere in grado di risolvere questa annosa questione, che pare attenere più ad una dimensione esistenziale, che non strettamente chimico-farmacologica.

Il farmaco è come se, metaforicamente, togliesse la polvere in superficie, ma non ciò che la riproduce costantemente.

Oggi essere felici non ci basta più.

Nei tempi odierni, in cui si può acquistare verosimilmente di tutto, non ci accontentiamo di qualche sorriso aggiuntivo o di un po’ di serotonina in più nel sangue. Cerchiamo altro. Qualcosa che non si acquista, ma che, forse anche per questo, sta acquisendo un valore sempre maggiore.

 

La costruzione della felicità

Lavorare sulla sinergia mente, corpo, spirito è una scelta attiva, consapevole, concreta, la decisione di dire sì alla propria natura, l’assumersi la responsabilità della propria vita, modificando schemi e comportamenti disfunzionali, privilegiando quelli più consoni e rispondenti a quel che ci si sente nel profondo.

E’ il sapere e sentire qual è la propria strada, il proprio percorso, i propri processi. E’ il tracciare il cammino, giorno dopo giorno, passo dopo passo, facendo le proprie esperienze, senza imitare né inseguire i modelli preconfezionati vigenti.

È il cucire il proprio abito su se stessi, liberandosi di quelli stretti e stantii del passato, evitando il pret a porter uniformante, convenzionale, standardizzato, spesso inadeguato alle proprie esigenze.

 

I benefici della costruzione della felicità

In questo processo ci si può rendere pian piano conto della ricchezza interiore e del panorama di vissuti, sensazioni, percezioni che ciascuno ha dentro.

Si impara ad attribuire loro pari dignità, valore e diritto di esistenza. Si comincia a riappacificarsi ed accettare pienamente tutto quel che emerge, rendendosi conto che la vita propria e altrui è molto più vasta e inaspettatamente piacevole che non una piatta a prevedibile ricerca della felicità.

All’apparenza paradossale, questo percorso aiuta a rendersi conto come la gioia si può conoscere tramite il dolore, il cielo sereno attraverso le nuvole, i sorrisi tramite le lacrime. Perché l’esistenza è molto più di quel che possiamo immaginare o prevedere mentalmente. E porsi degli obiettivi troppo specifici, a volte, rischia di limitare troppo il nostro orizzonte esistenziale, rendendoci così insoddisfatti e prigionieri (di noi stessi) a priori. Questa è la vera, prima, sofferenza. Ma così come ce la siamo creata, abbiamo in noi anche gli strumenti per superarla.

 

Per approfondire leggi gli articoli: 

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