Cosa significa essere uomo oggi

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Intervista a Davide d’Alessandro
di Anna Fata

Oggi il contesto sociale, economico, tecnologico, produttivo, culturale, politico in cui siamo immersi progredisce a ritmi vorticosi. La vita interiore, d’altro canto, necessita di tempi e ritmi più lunghi per potere elaborare e assimilare quanto sta accadendo, dentro e fuori di noi.

Ogni questione individuale è anche una faccenda sociale e viceversa. Limitarsi ad approcciare solo un fronte oppure l’altro per dirimere i problemi che possono insorgere di fronte alla complessità si sta rivelando fallimentare. E’ necessario un approccio che tenga in debito conto una molteplicità sempre più interconnessa di fattori.

Oggi si parla sempre più di globalismo, di crisi dei mercati e del modello capitalistico, di conflitti etnici, di allarme ambientale, di lotte inter religiose, di crollo dei valori e della morale tradizionale. Tutto questi fattori non possono se non mettere in crisi l’identità individuale per come è stata concepita fino ad oggi.

 

Dalla libertà alla appartenenza

Qualche decennio fa l’imperativo era costituito dalla rivendicazione e dalla difesa della propria libertà; oggi si assiste, invece, ad un parziale ritorno ad un senso di appartenenza e sicurezza, a discapito della libertà stessa.

Non si tratta di un semplice ritorno alle origini, perché nel frattempo la società è diventata sempre più complessa. Si è invece di fronte alla necessità di riformulare nuove regole di convivenza che tengano conto della grande eterogeneità etnica, culturale, politica, religiosa in cui siamo immersi.

In questo contesto il processo di creazione della propria identità di uomo rappresenta forse una delle sfide più complesse che siamo chiamati a fronteggiare. Da una parte sussistono ancora numerose istanze che esaltano il narcisismo, l’onnipotenza, l’arrivismo, il farsi da sé, l’annullare ogni debito transgenerazionale, la ricerca assoluta della felicità, della gratificazione immediata degli istinti e delle pulsioni. Dall’altra parte, invece, esiste una tendenza alla chiusura, alla rinuncia, alla resa di fronte ai desideri, alle aspettative, alle speranza e in parte alla libertà in nome di qualche forma di appartenenza.

 

L’influsso del contesto capitalistico

In queste istanze all’apparenza contraddittorie si può supporre che un grande ruolo l’abbiano ricoperto le dinamiche dell’economia e della produzione capitalistica che hanno tentato di sostituire i desideri più profondi umani con oggetti, prodotti, merci, sempre nuovi, costantemente cangianti, sostituibili, perché in ultima analisi mai veramente soddisfacenti.

Sono stati messi in ombra gli aspetti simbolici della vita interiore di ciascuno di noi, ci si è illusi che degli oggetti potessero essere loro portavoce, si è creato una sorta di delirio collettivo, in nome della massificazione della produzione e di riflesso dell’intera società.

Gli oggetti diventano in questo modo veri e propri feticci da possedere, da mostrare, più che da consumare, dei miti contemporanei che si sostituiscono a quelli che per generazioni hanno sancito i passaggi evolutivi associati alla creazione della nostra identità.

 

L’avanzamento della solitudine

In questo processo, paradossalmente, siamo sempre più soli: ogni questione da dirimere, ogni passaggio evolutivo fa’ appello esclusivamente a principi e valori personali, soggettivi, frutto di una crescente libertà, competizione, cinismo e scetticismo sul fronte sociale.

In questo contesto l’identità risulta sempre più liquida; sussiste l’illusione di possedere una identità, si arriva a credere che essa sia manipolabile, acquistabile, in modo semplice, veloce, indolore, esattamente come può accadere con qualsiasi altro bene di consumo.

Per questo motivo nella società contemporanea vanno molto di moda termini quali: flessibilità, adattamento, integrazione, una versione in molti casi distorta del famoso “carpe diem”, autoaffermazione, successo, competizione, piacere, godimento, narcisismo.

In realtà, l’identità che si configura in tali frangenti risulta poco radicata, assai superficiale, priva di autentiche radici, di rapporti profondi e autentici con l’Altro. L’autocoscienza, l’autoriflessione, la memoria, lasciano il posto al mero qui, ora, subito.

 

La crisi socioindividuale

In verità la questione è ancora più complessa, perché la polarizzazione sociale che sta scaturendo da una perdurante e grave crisi sociale, economica, culturale, religiosa, politica nel mondo occidentale non offre le medesime opportunità evolutive per tutti.

Per tale motivo, da una parte vi sono coloro che dispongono dei mezzi energetici, temporali, economici per acquisire, sperimentare, ed eventualmente abbandonare diverse identità. Sono coloro che al più possono essere assediati dall’angoscia di perdere i benefici acquisiti, ivi compresa la percezione della loro stessa identità.

Dall’altra si trovano coloro che si sentono spodestati della loro identità, che sono costretti ad assumerne un’altra, non scelta, imposta, subìta come il cosiddetto minore dei mali, frutto di un adattamento forzato ai fini della sopravvivenza. Sono coloro, ad esempio, che si adattano a svolgere un lavoro non gradito pur di sopravvivere più o meno dignitosamente, che emigrano, o che sono e agiscono in modi diversi dai loro reali, profondi desideri. In essi il sentimento dominante è la nostalgia per le radici, per il passato, per il bel tempo che fu, per una autenticità percepita come irrimediabilmente persa. In loro c’è meno angoscia dei precedenti, ma più che altro paura di perdere i piccoli benefici acquisiti con tanta fatica, mista ad un senso di vaga rassegnazione e accettazione del proprio destino.

Infine, ci sono coloro si sentono pressoché completamente esclusi dal sistema sociale, che non dispongono dei mezzi per costruirsi una identità in linea con il loro sentire interiore, che tendono all’emarginazione, alla chiusura in sé, all’esclusione, alla resa. Sono per lo più persone fragili, malate, anziane, con disturbi psichici, disoccupate, che sono costrette a confinarsi nel loro mondo di solitudine oppure, nella migliore delle ipotesi, a crearsi una comunità separata di appartenenza in cui sacrificare ampia parte della loro libertà pur di sopravvivere.

Di fronte a queste istanze così contraddittorie, in parte anche conflittuali tra diverse fasce di popolazione diventa sempre più imperante la ricerca, la sperimentazione della propria identità che possa fare da scudo protettivo rispetto a quelli che vengono percepiti come i mali della vita e del mondo.

 

La paura del diverso

Di fronte a sentimenti prevalenti quali angoscia, paura, malinconia, solitudine, si riafferma il desiderio di radici, tradizioni, memoria, appartenenza, comunità. D’altro canto non si può negare che all’interno di questo movimento interiore si possono affacciare numerosi, pericolosi moti di intolleranza, conflitto, odio. L’altro, nella sua diversità, viene percepito come minaccia ai confini della propria identità che con tanta fatica si cerca di costruire e arginare.

Se in passato la costruzione dell’identità rivendicava la libertà assoluta da vincoli, l’espressione e l’affermazione di sé sopra tutto e tutti, l’onnipotenza, il narcisismo, oggi pare che si stiano affacciando nuove istanze per certi versi regressive che animano i populismi, i sovranismi locali, le disgregazioni territoriali, i localismi, che portano inevitabilmente ad un irrigidimento dei confini identitari.

Si fa’ riferimento ad una sorta di modello ideale dell’identità, che per lo più impone la sua autorità, implica subordinazione, a cui si pensa di potersi uniformare. Questa nuova, dilagante posizione si alimenta in ampia parte tramite la schiera sempre più nutrita di persone che non sono nelle condizioni di poter costruire la loro identità, secondo le istanze più profonde e autentiche che hanno dentro.

Tali persone sono disposte a sacrificare quote sempre più ampie della loro libertà pur di incarnarsi in un senso di appartenenza che, almeno nelle loro speranze, possa essere in grado di tutelarle dall’emarginazione, dalla segregazione, dall’esclusione, dall’isolamento a cui si sentono altrimenti inesorabilmente condannate.

Il controllo sociale a cui si sottopongono va di pari passi con l’autocontrollo, con la rinuncia a parti importanti di sé, che però alimentano al tempo stesso pericolosi livelli di insoddisfazione, frustrazione, risentimento, rancore.

 

L’involuzione del narcisismo

Per concludere, se fino a qualche decennio fa l’identità prevalente era connotata da ingenti tratti di narcisismo, onnipotenza, irrazionalità, scarso governo degli impulsi, tendenza all’azione immediata, autoaffermazione, confini liquidi, instabili, costantemente cangianti, timore della perdita di ciò che si era acquisito, oggi, invece, le componenti narcisistiche sembrano subire una sorta di involuzione, nella forma di una maggiore chiusura in sé, autocontrollo, sadismo, paranoia, moralismo, perfezionismo, inadeguatezza, paura di impoverimento, panico, timore per il diverso.

Uno dei problemi fondamentali resta il rapporto con l’Altro da sé che suscita angoscia, opposizione, repulsione, rifiuto, terrore, che va respinto, tenuto alla larga, pena il rischio di essere fagocitati a propria volta. In realtà, alla base di tale problematica se ne annida una ben più profonda: l’incapacità di individuare e accettare che tali istanze di diversità, di alterità, di estraneità albergano già dentro se stessi e che il vero estraneo siamo noi di fronte a noi stessi.

Costruire un modello di identità basato su un sé idealizzato, grandioso non sembra rappresentare una soluzione valida per affrontare questa dinamica interiore, che si riflette anche all’esterno. Ambire ad una identità ideale non sembra preservarci dall’invidia distruttiva di chi, almeno dall’esterno, intorno a noi sembra essere capace di riuscire in questa impresa titanica.

La vera lotta a cui oggi stiamo assistendo sembra essere prima di tutto una guerra interiore con se stessi e che poi si riflette anche fuori, con tutte le implicazioni del caso. Solo tornando a coltivare una profonda consapevolezza e accettazione interiore, ciascuno con i suoi modi e tempi, sarà possibile una relazione più autentica e serena con l’Altro da sé.

Cosa ci può dire in relazione a questo complesso processo identitario la psicoanalisi?

 

L’intervista a Davide d’Alessandro

Di questo parliamo con Davide D’Alessandro, saggista, consulente filosofico, già docente di Ermeneutica filosofica all’Università di Urbino, grande conoscitore della psicoanalisi, che ha intervistato di recente per Il Foglio numerosi psicoanalisti su temi di grande interesse e attualità. Tra i suoi libri più recenti: “Intervista a Machiavelli”, “La vita del potere. Una storia filosofica e politica”, “Potere & Morte. Le matite di Canetti”. A breve sarà in libreria con “Filosofia e Psicoanalisi. Le parole e i soggetti” (Mimesis) e “Il paziente e l’analista. Dialoghi sulla psicoanalisi” (Moretti&Vitali), scritto con Antonino Buono.

 

D: Qual è il significato che la psicoanalisi attribuisce al termine “uomo”?

R: L’uomo è l’oggetto della psicoanalisi. Per Pierre Daco, la psicoanalisi è la scienza, io direi la straordinaria esperienza che ha rivelato l’uomo a sé stesso. Un’esperienza di nudità e di libertà. Un’esperienza necessaria per porsi davanti a sé senza alcun infingimento, una discesa negli abissi.

Ma cosa cerco dove non c’è luce, dove il fango appesantisce i miei passi, dove tutto appare putrefatto? Cerco una perla. Quella perla sono io, ero io prima della sepoltura. Chi l’ha sepolta? Quando? Perché?

Dipende. Ognuno ha la propria storia da raccontare, i propri fantasmi da evocare, i propri veli da squarciare. Ognuno ha le proprie parole per dirlo, come Marie Cardinal. Ma se non trovo quella perla, ho perso tutto. La mia vita sarà inutile fino all’ultimo dei miei sospiri. Perché non sarà la mia, ma quella vissuta da un altro che mi ha cancellato, sepolto, rubandomi la scena con la sua maschera buona per tutte le scene. L’uomo è chiamato a fare i conti con quella maschera.

 

D: Se e come si differenzia il termine “uomo” dal “Maschile” che, in diversa parte alberga in ciascuno di noi, a prescindere dal sesso biologico?

R: È facile fare i maschi, molto difficile essere uomo. L’uomo è certamente attraversato dal maschile e dal femminile, il suo racconto è intessuto da trame mai univoche, la sua parola spesso s’infrange contro ciò che intende negare. È materia fragile, e piuttosto manovrabile e plasmabile, l’uomo, ma dalla fragilità può ricavarne forza. Sta a lui, alla sua condotta, al suo sapersi ascoltare, fare di sé un re o un mendicante.

So bene che per Emanuele Severino (del quale piango la scomparsa e non la fine, poiché la sua figura non mi appare più ma i suoi libri sono sempre con me) l’uomo non deve farsi re, poiché già lo è a prescindere, eppure è lo stesso Severino a dire che è un re che si crede mendicante.

L’uomo deve ripartire dalle sue componenti strutturali e vitali, maschile e femminile, per tentare di essere l’uno che mai sarà. È questo il suo scacco e il suo senso. Il suo non averne.

 

D: Quali sono le tappe evolutive che conducono al diventare uomo?

R: Posto che lo si possa diventare, ci si allena attraverso le prove, il mettersi in discussione, il calarsi in ciò che si ritiene vero mentre spesso altro non è che carta straccia. Una canzone di qualche tempo fa diceva che si diventa grande e non si sogna più. C’è un sogno, invece, dentro ognuno che deve accompagnarci sempre, fino all’ultimo respiro.

Le tappe evolutive non sono i percorsi a ostacoli con i cartelli stradali che indicano la direzione dove andare. Le tappe evolutive sono l’interrogazione costante di quel sogno, sogno che se ha a che fare con la conquista del potere, del denaro, degli onori, rappresenta davvero poca cosa. Sogno che se ha a che fare con l’incontro della nostra intima essenza, rappresenta tutto, cioè l’inesprimibile. Ciò che ci fa vivere, che ci rende vivi, che ci fa essere uomini, non è dicibile.

 

D: Se e come è cambiato nel tempo il processo evolutivo che conduce al diventare uomo?

R: Certo che è cambiato, poiché l’uomo è relazione, non abita in una caverna, ma regola la sua condotta in base allo scambio con gli altri. Cambia la realtà esterna, quella che ci circonda, cambiano i dispositivi che guidano l’inquietudine dell’umano, ma l’inconscio è sempre lì a ricordarci di avere uno statuto diverso rispetto a ciò che muta davanti ai nostri occhi.

 

D: Nello specifico, quali sono le sfide esistenziali maggiori a cui sono sottoposti gli uomini oggi nella nostra società?

R: La sfida esistenziale maggiore è a essere uomo, non a diventarlo. Non si diventa uomo dopo Auschwitz, ma ad Auschwitz. L’uomo è sottoposto costantemente alla propria spersonalizzazione, è chiamato a misurarsi con svariati attacchi che arrivano da più parti. Attacchi che mirano a depotenziarlo, a ridurlo, a minimizzarne le qualità. Ma l’uomo resta una possibilità sempre viva e sempre aperta. La sfida lo abita, è dentro di sé, non fuori.

 

D: Nell’ipotesi che esistano contesti sociali, culturali, politici, economici, religiosi anche assai diversi da quelli occidentali in cui siamo immersi, come questi possono influire e condizionare l’essere uomini?

R: Possono certamente influire e condizionare, ma l’uomo conosce due discipline, due pratiche, due straordinarie esperienze, la filosofia e la psicoanalisi, che non operano allo stesso modo pur essendo inestricabilmente legate. Non sono due rimedi. Sono due compagne di viaggio in grado di tenerlo in piedi, con lo sguardo rivolto dentro e in alto.

Il resto, mi creda, è davvero poca cosa. Disturbo, disagio, perdita di tempo. Basta leggere il mio prossimo libro in uscita a Marzo da Mimesis, per cogliere, attraverso le intuizioni di filosofi e psicoanalisti di valore, quanto sia profondo il loro rapporto e quanto sia utile farle vivere contro la chiacchiera, la superficialità, il vuoto. Filosofia e psicoanalisi sono critica e diagnosi dell’umano.

 

D: Quali sono gli stereotipi più diffusi nel nostro mondo occidentale contemporaneo con cui sono chiamati a confrontarsi gli uomini?

R: Tanti ed è persino stancante enunciarli. I nemici dell’uomo, altro che stereotipi, sono sempre dietro l’angolo. Conosciamo, grazie a Niccolò Machiavelli, la natura umana, ciò che può esaltare l’uomo e ciò che può condurlo alla “ruina”. L’uomo ha senso se si ricorda di avere senso senza la necessità di darsi senso.

 

D: Nello specifico, il mito dell’uomo che non deve chiedere mai, che ha già tutto quello che serve in se stesso, che si costruisce da solo, che non deve niente a nessuno, che rifiuta ogni legame che possa dare adito a dipendenze, tanto in voga ultimamente che cosa cela nel profondo?

R: Una grande disperazione. Nessun uomo è un’isola, ma dell’isola c’è bisogno per distinguere il silenzio dal rumore. Il segreto è essere nel mondo senza essere del mondo. Come vede c’è chi, molto prima di noi, ha capito tutto della vita e ci ha lasciato frasi di acutissimo valore. C’è davvero poco da inventarsi, nonostante in giro si vedano molti fenomeni intenti a miracol mostrare.

 

D: Se e in che modo si esplica il ruolo dell’Altro nel processo dell’evoluzione dell’identità dell’uomo?

R: Tutto ciò che non è Io è fondamentale per lo sviluppo e la crescita umana, però metterei in guardia da chi, a forza di picconare la nostra singolarità, ci riduce a soggetti impresentabili e verso l’Altro, a rapportarsi con l’Altro, non possiamo mandare soggetti impresentabili.

 

D: Oggi nel senso comune va molto di moda il termine “narcisismo” e come sua icona viene preso proprio l’uomo. Quanto c’è di vero in questo pregiudizio e cosa comporta per l’uomo stesso, oltre che per chi lo circonda?

R: Guai all’uomo che non abbia una buona dose di narcisismo! Ci sono studi importanti sul narcisismo, studi che sanno separare quello sano da quello malato. Fioriscono purtroppo, sul narcisismo, anche libri banali e inutili, che vorrebbero invitare i lettori a fuggire dai narcisisti. Bisognerebbe chiedere, a quegli autori, che cosa li ha spinti a scrivere e a pubblicare…

Narciso non fa parte di qualche pianeta extraterrestre. Narciso siamo noi. Occorre riconoscerlo e dialogarci senza alcun timore. Vi sono casi in cui il narcisismo può persino salvarci la vita, altri in cui può farcela perdere irrimediabilmente.

 

D: Oggi tendiamo ad uniformarci: da un lato ci dichiariamo orgogliosamente unici e irripetibili, con la possibilità di essere quello che si è, senza mezze misure, senza compromessi, con la rivendicazione assoluta di essere accettati in tutto e per tutto, dall’altro vige la massificazione, il tentativo di uniformarsi, di appartenere e di fare bella mostra di tutto ciò. Se e come conciliare queste istanze all’apparenza contraddittorie per l’uomo?

R: Uniformandosi a sé stessi, alla propria verità, non cedendo di un millimetro sulla propria verità. Non vuol dire chiudersi o non rispettare l’altro. Vuol dire tener fede al proprio desiderio, realizzarlo nella libertà, nella propria carne, nel proprio corpo, senza cancellare o, peggio, passare sul corpo dell’altro

 

D: Cosa implica postulare l’esistenza dell’inconscio per la nostra identità e cosa rischiano di creare i tentativi di negarne l’esistenza da parte di altre correnti interpretative di pensiero?

R: Lo ha spiegato molto bene Schopenhauer e molto prima di Freud. Ecco due nomi: Schopenhauer e Freud, un filosofo e uno psicoanalista, l’inventore e il continuatore della psicoanalisi. L’uomo senza inconscio non è uomo. Le correnti interpretative di pensiero che tentano di negarne l’esistenza hanno smesso di sognare. Se leggessero il libro di Antonino Buono, “Sogni. Realtà altra, immaginazione creativa, profezia”, edito da Morlacchi, comprenderebbero l’inconscio, la sua potenza, la sua inesauribile ricchezza.

 

D: L’inconoscibilità ultima di se stessi e degli altri che cosa comporta concretamente nelle relazioni e nel processo di costruzione della propria identità?

R: Identità è termine scivoloso e pericoloso. Sono cauto verso chi la esalta e rivendica, ma diffido di chi la disconosce. Ognuno può giungere fino a un punto, al suo punto, non oltre. “Conosci te stesso” è una meravigliosa esortazione. Io, modestamente, aggiungerei “fin dove è possibile”. L’uomo pericoloso è colui che smarrisce l’umiltà, che dice sempre “io”. Ma è pericoloso anche l’uomo che ripete sempre “noi” per continuare a dire sempre e soltanto “io”.

 

D: Da studioso e profondo frequentatore della psicoanalisi, quale potrebbe essere un consiglio finale, una direzione, un orientamento che possa fungere bussola nel lungo, complesso e sicuramente molto personale processo di acquisizione dell’identità per un uomo?

R: Dà buoni consigli chi non può dare più cattivi esempi. Il consiglio che sento di dare a me stesso, non agli altri, è di continuare ad ascoltarmi e ad ascoltare. Può sembrare poco, ma è anche tutto.

 

Leggi anche l’intervista: “Cosa significa essere Donna oggi

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